Gandini: “Impegno, lavoro e sobrietà: rappresentare chi fa impresa è anche questione di stile”

Dopo 43 anni passati nell’Unione Industriali della provincia di Varese, di cui gli ultimi 18 nel ruolo di direttore, Vittorio Gandini passa il testimone a Silvia Pagani. Il bilancio di questo incarico tra sfide, cambiamenti e progetti, tra cui anche l’aver contribuito alla crescita di VareseNews

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Vittorio Gandini dopo 43 anni trascorsi nell’Unione degli industriali della provincia di Varese, di cui 18 nel ruolo di direttore, passa il testimone al nuovo direttore Silvia Pagani. «Conta chi arriva e non chi va» dice Gandini, tenendo fede alla sua nota sobrietà. Ma è indubbio che il lavoro svolto in tutti questi anni lascia un traccia importante nell’associazione degli industriali, dove ha iniziato la sua carriera nel 1978 ancora prima di laurearsi in giurisprudenza.

Gandini, nel fare un bilancio degli anni passati all’Unione degli industriali della provincia di Varese, qual è la cosa che più ha segnato la sua storia umana e professionale?
«È difficile rispondere a questa domanda, perché in questi 43 anni, di cui gli ultimi 18 vissuti da direttore, abbiamo avuto processi evolutivi profondi, non solo della nostra industria, ma anche della società, della politica e del territorio. Se poi guardiamo agli ultimi quindici anni l’accelerazione degli accadimenti è stata ben superiore rispetto al passato. Quindi ciò che si è dovuto fare per rimanere al passo e, quando possibile, anticipare ciò che le circostanze imponevano, ha moltiplicato l’intensità delle attività svolte. Partirei dal fatto che 30 anni fa è stata istituita la Liuc-Università Cattaneo, un lasso di tempo significativo ma non così lungo se si pensa alla complessità dell’operazione, questo è un elemento che ha segnato e continua a segnare positivamente la storia dell’Unione degli industriali. Una delle cose che ha contraddistinto la mia vita di lavoro è stata la grande facilità nel gestire la nostra associazione, attraverso la condivisione di ruoli, responsabilità e attività. Il supporto degli imprenditori, a partire da quelli che abbiamo avuto a capo dell’Unione, e non mi riferisco solo ai presidenti, è stato determinante perché hanno dimostrato grandissima intelligenza nell’interpretare il ruolo associativo nel modo più corretto: rendere un servizio alle imprese e al territorio, non certo un’occasione per mettersi in evidenza. La struttura dell’Unione, che si è molto modificata negli anni, per rispondere alle nuove esigenze, ha dato prova di grande serietà e capacità, cercando quando possibile di anticipare i tempi e i bisogni delle imprese e del territorio. Nel mio lavoro ho cercato sempre di consentire che queste cose accadessero in modo naturale e le due grandi componenti dell’Unione lavorassero in sintonia. Un lavoro che si è tradotto anche in uno stile e in una certa sobrietà nel rappresentare il nostro punto di vista all’esterno. In un mondo che grida, a volte qualche silenzio incide di più».

Dopo la crisi economica del 2008 e quella attuale generata dalla pandemia, a quale sfida sono chiamate oggi le associazioni di categoria?
«Per far fronte a questi due eventi epocali, la nostra struttura ha dimostrato di avere un grande spirito di abnegazione. Negli ultimi due anni, abbiamo lavorato giorno e notte in condizioni complicate, per dare risposte adeguate alle imprese quando c’era il caos totale e una confusione generale sulle informazioni e l’interpretazione delle disposizioni. In quei momenti, l’Unione è stata un punto di riferimento, facendo uno sforzo che le imprese hanno riconosciuto e apprezzato. Alcune di queste, non iscritte alla nostra associazione, hanno deciso di farlo perché hanno toccato con mano la nostra attendibilità e serietà. Le associazioni devono cambiare e molte lo hanno già fatto per evitare di essere confuse in un mare di mediocrità. Il mio non è un giudizio di merito sugli altri, men che meno sulle altre associazioni, mi riferisco invece al modello della nostra società. In questa fase, le imprese, e più in generale il mondo economico, devono trovare nelle associazioni un punto di riferimento in grado di infondere fiducia. Non si tratta solo di dare informazioni corrette e servizi adeguati, ma essere capaci di interloquire e stabilire una relazione vera per interpretare e rispondere ai bisogni, alle ansie e alle preoccupazioni che, in momenti come quello che stiamo attraversando, creano incertezza e sfiducia. È vero, noi non siamo la Croce Rossa, ma l’associazione oggi deve essere il luogo dove avviene questo confronto perché è lì che gli imprenditori possono essere ascoltati e capiti. Noi siamo chiamati spesso a dare risposte a problemi che dovrebbero essere affrontati da altri soggetti perché in questo Paese chi dovrebbe fare certe cose non le fa. L’associazione assume dunque anche un ruolo sociale importante. Questo è un cambiamento culturale notevole».

La nomina di Silvia Pagani, primo direttore donna nella storia dell’Unione industriali della provincia di Varese, è un altro segno del cambiamento in atto?
«Non vorrei essere frainteso, ma personalmente sono contrario alle quote rosa perché non ha senso dire che se sei donna o se sei uomo devi fare una certa cosa. Silvia Pagani è brava e incidentalmente è donna e questo è un aspetto importante. Ma non l’abbiamo scelta perché è donna, ma perché è competente e capace. Certo, in quanto donna esprime una serie di sensibilità e capacità che possono meglio valorizzare un ruolo importante, non perché c’ero io ma perché è strategico per l’Unione. Da questo punto di vista Silvia Pagani rappresenta la summa di due componenti: la competenza di merito e la qualità caratteriale e relazionale, che l’essere donna valorizza ulteriormente. Nel nostro sistema ci sono molte donne in ruoli apicali, pensiamo al direttore generale di Confindustria nazionale. Se poi guardiamo a Varese e alla nostra associazione ci sono donne ai vertici da molti anni. Penso alla responsabile del nostro ufficio studi, dell’area sindacale – ruolo tradizionalmente affidato a un uomo -, dell’ufficio previdenza, dell’ufficio di Gallarate e l’elenco potrebbe continuare. Questa cultura della qualità della persona e della competenza, senza alcun limite rispetto al genere femminile, noi la pratichiamo da tempo».

Spesso nel dibattito sul destino dell’economia del territorio compare la parola vocazione. In due secoli di storia le imprese del manifatturiero hanno scritto un romanzo industriale straordinario. Qual è oggi l’identità del sistema imprenditoriale della provincia di Varese?
«C’è una capacità di autogenerazione della nostra attività manifatturiera che è si affermata nella storia di questo territorio, però è innegabile che ci sia una difficoltà obiettiva nel perpetuarla senza modificazioni. Oggi la qualità e la genialità dei nostri imprenditori è ancora diffusa, penso però che vada indirizzata anche verso filoni meno praticati. L’allargamento di questa capacità imprenditoriale non può riguardare solo il manifatturiero, altrimenti il rischio che si corre è di adagiarsi su un’eredità straordinaria, valida e presente, ma che se non coltivata tenderà a ridursi. È come il ghiaccio che si scioglie a causa delle condizioni ambientali, anche quel patrimonio rischia di sciogliersi più velocemente».

Che cosa in particolare mette a rischio quella storia?
«Nel fare impresa c’è indubbiamente una componente personale e cioè la voglia di spendersi, di rischiare, facendo investimenti, e mettersi in gioco da parte dell’imprenditore. A questa si aggiunge una componente che riguarda il contesto e cioè il Paese che deve essere in grado di rendere più o meno agevole l’intrapresa economica. Ciò non significa che se un imprenditore non ce la fa è colpa di qualcun altro, ma se l’imprenditore deve dedicare le sue migliori energie non all’attività core ma a tutta una serie di incombenze collaterali che lo distraggono dal fare impresa, tutto diventa più difficile. Va detto che ci sono aree del Paese dove le cose funzionano meglio, dove la crescita, gli sviluppi e gli aggiornamenti del tessuto produttivo sono più veloci. In una provincia come quella di Varese dove c’è una densità imprenditoriale altissima si convive con una viabilità molto difficoltosa, con problemi a nord del territorio e la presenza del confine svizzero che a sua volta è molto attrattivo. Nonostante tutto ciò, ci sono moltissime attività in provincia che, seppur poco note, realizzano prodotti straordinari. Ci vorrebbe una narrazione più puntuale delle imprese del territorio, evitando l’enfasi, per rafforzare questo patrimonio nel momento del cambiamento».

Sono passati quasi 20 anni da quando è iniziata la collaborazione tra l’Unione degli industriali e Vareseweb la società che edita Varesenews di cui gli industriali sono soci. Qual è il suo giudizio su questa esperienza?
«È stata una sfida culturale, difficile da ripetere oggi, perché metteva insieme il diavolo e l’acqua santa. Forse qualcuno ha pure pensato che avrebbe avuto vita breve. Invece, direi che sta durando egregiamente e sta producendo effetti positivi proprio per come è stata gestita. Il giornale ha sempre avuto una grande attenzione al territorio, allo stile con cui si danno le notizie e al fatto di essere obiettivi e asettici senza approfittare di facili situazioni per creare occasioni di lettura in più. Questa serietà ed equidistanza rispetto alle cose, persone e situazioni è un connotato che caratterizza Varesenews come dimostra l’eterogeneità della comunità dei suoi lettori e i numeri che esprime. Questa varietà di estrazione, culture e pensiero fa sì che la gente lo trovi affidabile. L’aver costruito un rapporto trasparente e di reciproco rispetto, tra chi gestisce la società e chi fa il giornale, è il risultato della vostra serietà e di quella dei soci di Vareseweb».

Silvia Pagani è il nuovo direttore dell’Unione degli Industriali della provincia di Varese

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Pubblicato il 02 Febbraio 2022
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