Fabio Concato al Teatro di Varese: “La musica una medicina straordinaria”

Il cantautore in scena venerdì 18 marzo al teatro di Piazza Repubblica per una tappa del suo "Musico ambulante tour". In questa intervista si racconta e annuncia: "Presto un nuovo disco"

Fabio Concato musicista

È straordinario, Fabio Concato, quando racconta del suo ultimo concerto nel Varesotto: «A Luino, qualche anno fa, c’era un vento che faceva volare via i parrucchini. Non il mio, ovviamente». Si lascia andare in una risata e continua a raccontarsi con gentilezza e semplicità: gli anni del Derby di Milano, il mondo delle discografia di ieri e di oggi, l’affetto che lo lega a Varese, città dove la madre sfollò durante la Seconda Guerra Mondiale. E ancora, il periodo della pandemia e la grande preoccupazione per l’attuale conflitto in Ucraina. Classe 1953, milanese, Fabio Concato è uno dei cantautori più importanti della musica italiana, capace di conciliare canzone d’autore e jazz. La musica per lui è «una straordinaria medicina» e questa sera (venerdì 18 marzo) sarà sul palcoscenico del Teatro di Varese per una tappa del “Musico Ambulante tour”. Con lui sul palco: Ornella D’Urbano (arrangiamenti, piano e tastiere), Stefano Casali (basso), Larry Tomassini (chitarre) e Gabriele Palazzi (batteria) – biglietti.

Quale sensazione si prova, finalmente, a tornare sul palcoscenico?
«Ho ricominciato la scorsa estate, seppur non di gran carriera come adesso. C’è stato un momento di fermo, ma ora siamo finalmente ripartiti, nonostante la pandemia e le brutte notizie di questi giorni. Siamo tutti molto angosciati e preoccupati, però la gente dimostra di avere voglia di musica, di dedicare un paio d’ore alla cura della propria anima e del proprio corpo. La pandemia ci ha chiesto molti sacrifici, ci ha tolto le cose che ci avrebbero curato di più, è facile capire quali siano le ragioni ma siamo rimasti all’asciutto».

Fabio Concato musicista

La sua ultima raccolta si intitola Musico Ambulante e raccoglie il meglio del suo repertorio in una versione inedita. Come è nato questo best of ? 
«È un lavoro che avevo fatto tempo fa per me, con un amico chitarrista. Mi è capitato di farlo ad ascoltare a diversi amici e tutti mi hanno suggerito di pubblicarlo. E allora, nonostante fossero passati diversi anni dalla registrazione, mi è sembrato il momento di pubblicarlo. È come se entrassi nelle case di ognuno con una chitarra, con semplicità».

Durante il periodo di isolamento per la pandemia ha scritto «L’Umarell», un omaggio alla sua Milano e a quei signori che si fermano a guardare i cantieri. Qual è il significato?
«È stata un’esperienza interessante. Eravamo in piena pandemia, un amico mi ha regalato questa statuita alta 10 cm dell’Umarell che ho messo sul pianoforte. Un giorno, mentre la guardavo, è come se mi chiedesse cosa potevo fare io per la situazione che stavamo vivendo. Ho iniziato a scrivere questa canzone, venuta fuori in dialetto milanese. La musica ha anche il ruolo di ricordare, raccontare periodi dolorosi come quello».

Parlando di Milano mi viene in mente il Derby, il famoso locale dove anche lei ha mosso i primi passi. Cosa ricorda di quel periodo?
«È stato un locale unico, peccato che non esista più. Un’esperienza micidiale, una palestra fantastica, il pubblico era distante 15 cm da te e dovevi farlo ridere. Era una cosa che aveva delle velleità».

Fabio Concato musicista

Tornando alle canzoni, ha scritto L’Aggeggino e l’ha dedicata a sua nipote. Come si trova nei panni del nonno?
«Quella bambina ha una energia contagiosa, è eccezionale, ci ha dato una birra micidiale. È stata la cosa più bella che mi sia successa in questi anni, oltre alla nascita delle mie figlie. Spesso mi chiedo cosa penseranno queste generazioni di bambini nate e cresciute guardando gli adulti indossare delle mascherine sul volto, in un periodo così difficile».

Ha nuove canzoni nel cassetto? Uscirà un disco di inediti?
«Ho canzoni nel cassetto, sto scrivendo. Mi è tornata la voglia di scrivere e credo che nel giro di qualche mese pubblicherò un nuovo lavoro. Vediamo in che forma, se solo in rete, solo su supporto fisico, solo in vinile. Le strade sono più di una, anche se, spiace dirlo, oggi le canzoni sembrano durare il tempo che durano».

A tal proposito, quanto è cambiata la discografia in questi anni?
«C’è stato un cambiamento secolare. Una volta si registravano le canzoni su un nastrino che si portava a qualche casa discografica, sperando che fosse ascoltato dal direttore artistico. Poi si aspettavano mesi. Oggi è tutto diverso, è cambiato il mondo, è cambiata la tecnologia, è tutto più veloce. Le case discografiche scoprono gli artisti, ma non gli lasciano il tempo di maturare, si vuole tutto e subito. Una volta ti davano tempo di maturare, trovare la tua strada, investivano su di te, sapevano che quelli bravi prima o poi ce l’avrebbero fatta. Ricordo che anche il mio discografico mi disse di avere pazienza, e aveva ragione. Al settimo anno è successo qualcosa e da lì non mi sono più fermato».

Quali sono stati i momenti più belli e quali i peggiori di quarantacinque anni di musica?
«I ricordi più belli sono legati alla dimensione dei concerti, per il resto non ho brutti ricordi. Ci sono stati momenti in cui andavo più incontro a quello che desiderava la gente e altri meno. Detto in altre parole, momenti di alti e bassi, come è fisiologico che sia. Certo, se devo dirle un buon ricordo è quello dei primi concerti: momenti autentici di musica, di scambio, di confronto musicale e artistico. Se devo pensare ad anni brutti, penso a questi che stiamo vivendo, dal 2019 ad oggi: la pandemia ci ha fermato e oggi con le notizie che arrivano dal cuore dell’Europa abbiamo tutti il cuore appesantito. Sono preoccupato e spaventato, spero che questi concerti possano essere momenti di disintossicazione e di liberazione. La musica è un farmaco straordinario».

Adelia Brigo
adelia.brigo@varesenews.it

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Pubblicato il 18 Marzo 2022
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