Il latte green 100% non è latte (e non esiste)
Le varie tipologie del prodotto che troviamo sugli scaffali dei negozi si differenziano anche per modalità di trattamento subìto perciò il consumatore deve scegliere bene il punto di equilibrio tra qualità e convenienza
Latte di origine animale o vegetale, fresco o a lunga conservazione, in cartone o bottiglia? Dopo l’allattamento, il breve e rimpianto periodo in cui il latte è servito a domicilio in una confezione privata, il rapporto con questo importante alimento diventa complicato, anche a causa dell’evoluzione del marketing e delle esigenze di riduzione degli impatti ambientali. Una guida per orientarci nel mare di scelte a disposizione.
Un mare di latte e di benefici
Il latte è ottenuto dalle ghiandole mammarie dei mammiferi, che ne producono 850 miliardi di litri nel mondo ogni anno (di vino se ne produce “solo” 25 miliardi di litri e di birra 180). L’India è il più grande produttore mondiale e il più grande esportatore di latte scremato in polvere. La Russia e la Cina ne sono i maggiori importatori. L’Ucraina e la Bielorussia con 114 kg/anno hanno il consumo pro capite più alto al mondo, mentre l’Italia è nella media europea con circa 50 litri all’anno. L’85% proviene da mucche e il resto da capre, pecore, bufali, cammelli, cavalli e asini. Il latte che non si beve viene lavorato per ottenere formaggio, yogurt, burro, burro chiarificato, latte condensato, latte in polvere e gelato. Ricco di proteine, calcio, iodio, vitamine B2 e B12, fosforo e potassio è un ingrediente importante per la crescita e la salute. Alcuni dei suoi benefici sono pelle vellutata (bagno nel latte di Cleopatra), denti e ossa forti, ri-costruzione tessuti muscolari (dopo intensa attività fisica), apporto calorico (bilanciato durante le diete), riduzione di stress giornaliero, disturbi mestruali, bruciore di stomaco, pressione alta, colesterolo.
Un mare di scelte, troppe
Nella via dove sono cresciuto, c’erano due latterie e un solo tipo di latte. Il latte pastorizzato omogenizzato della Centrale del latte di Milano da 500 ml nella iconica confezione piramidale, alcuni dicono evocativa del seno materno. Era fatta dalla TetraPak, il cui nome deriva dalla forma del contenitore tetraedro inventato a Stoccolma nel 1953 da Erik Wallemberg. L’unica variazione era d’estate in montagna, quando la nonna mi mandava dal fattore con la bottiglia d’alluminio a prendere il latte munto di giornata. Bucolica semplicità di una volta. Oggi è un tantino più complicato. C’è chi dice che ormai il latte è da sfigati. Meglio quello alleggerito in lattosio, arricchito in omega tre, che dura 30 mesi fuori dal frigo e ti prepara il cappuccino da solo. A ben vedere tutto il latte offerto dal mercato non è latte, ove con tale definizione volessimo intendere la risultanza (naturale e genuina) del processo di secrezione delle ghiandole dei mammiferi. L’offerta al consumo del prodotto è rappresentata per la sua totalità dall’esito di processi termici e condizionamenti, che ne alterano irrimediabilmente le originarie caratteristiche organolettiche. Si innescano processi di caramellizzazione degli zuccheri (il lattosio), di precipitazione di una frazione delle siero proteine e di alterazione delle fragranze derivanti dagli alimenti somministrati alle vacche. In altri termini: il latte crudo (non commercializzabile per motivi igienico-sanitari) ed il latte pastorizzato/sterilizzato sono due cose ben diverse, perciò dobbiamo scegliere bene il punto di equilibrio tra qualità e convenienza. Oltre alla distinzione per contenuto in grassi (intero, parzialmente scremato o scremato), le varie tipologie di latte si differenziano anche per modalità di trattamento subìto. Il latte pastorizzato viene sottoposto a calore minore, dura di meno, ha migliori qualità nutrizionali; quello sterilizzato viene sottoposto a calore maggiore, dura di più, ha peggiori qualità nutrizionali. Il primo può essere fresco, di alta qualità, pastorizzato ad alta temperatura e microfiltrato. Il latte sterilizzato può essere trattato a temperature più basse (“latte sterilizzato”) o a temperature più alte (“latte sterilizzato UHT”, a lunga conservazione). La tecnica di pastorizzazione normalmente avviene a 71,7°C per un tempo di 15 secondi, ma le temperature possono arrivare fino ad 80° C. Il latte fresco è trattato entro le 48 ore dalla mungitura e può essere conservato fino al sesto giorno successivo. Il latte fresco pastorizzato di alta qualità contiene almeno il 15,5% di sieroproteine non denaturate dal calore. Il latte pastorizzato ad alta temperatura viene sottoposto ad un riscaldamento più alto (tra 80 e 135°C) per un secondo, deve essere conservato sempre in frigorifero, ma può essere consumato fino ad anche 10-15 giorni. Il latte microfiltrato è un tipo di latte sottoposto ad un processo che allontana gran parte della flora microbica originaria con apposite membrane, col vantaggio che può essere pastorizzato a temperature più basse e un tempo di conservazione doppio rispetto a quello pastorizzato. Il latte sterilizzato viene riscaldato per circa 20 minuti a 116-120 °C. e si conserva per 6 mesi. Il latte sterilizzato UHT (ultra high temperature) viene riscaldato a 131-150°C per 1-5 secondi e si conserva per 3-6 mesi a temperatura ambiente, ma perde molte più qualità nutrizionali (vitamine idrosolubili poco resistenti al calore, come acido folico, vitamina B1 e B12).
L’imballaggio che ci imballa
Se abbiamo anche l’ambizione di scegliere in modo eco-sostenibile l’equazione da risolvere diventa quantica. In casa mia in questo momento ci sono 4 tipi di latte con confezioni diverse. Granarolo, latte intero, non normalizzato, pastorizzato a temperatura elevata, scadenza due settimane, 100% italiano; confezione a emissioni zero da fonti vegetali e a emissioni zero (certificato Carbon Trust label di Tetrapak), con contenitore di carta C/PAP 81 certificato FSC di cellulosa proveniente da foreste gestite in maniera responsabile e altre fonti controllate; e tappo HD PE 02, ricavato dalla canna da zucchero, che viene fatta fermentare senza utilizzo di fonti fossili; qualità di filiera italiana garantita, con benessere animale certificato in allevamento. Carrefour, latte fresco di alta qualità, pastorizzato intero, durata 4 giorni, 100% munto in allevamenti italiani con garanzia di benessere animale certificato CSQA DTP 122, con confezione in bottiglia PET 01 con il 50% di plastica riciclata; e tappo HD PE 02 ed etichetta PP 05. Primia, latte parzialmente scremato microfiltrato U.H.T. a lunga conservazione, scadenza 3 mesi; da allevamenti italiani, con contenitore in carta C/PAP 84 TetraPak Aseptic e tappo di plastica HD PE 02. Infine, Parmalat, latte parzialmente scremato U.H.T. a lunga conservazione, con vitamina D, 100% italiano, scadenza 3 mesi, in bottiglia PET 1 e tappo HD PE 02. Per sapere come riciclare questi imballaggi può non bastare una laurea in ingegneria dei materiali, sempre che ce l’abbia anche l’ufficio tecnico del servizio raccolta del nostro Comune, che invece potrebbe avere altre idee. Non sarebbe meglio fissare uno standard unico per il packaging del latte che ne ottimizzi costi e ciclo di vita sostenibile, la nostra compresa?
Il packaging è un falso dilemma
In realtà, il packaging è un problema secondario, se si ha una visione più ampia degli impatti ambientali. In Italia sono ormai 12 milioni le persone che consumano abitualmente bevande vegetali proveniente da legumi, cereali e frutta secca oleosa. Un’ottima alternativa per chi è intollerante al lattosio, ma anche per chi decide di seguire una dieta vegana e vuole avere minore impatto sull’ambiente. Ma anche in questo caso il diavolo è nei dettagli. Dopo lo studio che ha messo a confronto l’impatto ambientale dell’olio di palma con quello dell’olio di cocco, nel tentativo di stabilire quale dei due fosse più pericoloso per il pianeta, ne è stato fatto uno interessante anche sul latte. Su The Conversation è uscito un articolo firmato da due ricercatrici della Curtin University, in Australia, che si interrogano su quale sia il “latte” con il minore impatto ambientale, prendendo in considerazione sia il latte animale (vaccino o caprino che sia), e anche quello di origine vegetale, da quello di soia a quello di noci, che tecnicamente non può e non dovrebbe essere chiamato latte. Uno studio del 2018 ha stimato che la quantità di emissioni generate dalla produzione di latte vaccino o caprino è tripla rispetto agli equivalenti vegetali, e che il suo potenziale impatto sul riscaldamento globale (che viene calcolato in kg di CO2 emessa per litro di latte prodotto) varia da 1,14 in Australia a 2,50 in Africa. In confronto, il latte di mandorla ha in media un potenziale di 0,42 e quello di soia di 0,75. Scegliere tra quelli vegetali è però complesso, perché ogni tipologia ha pregi e difetti che variano anche su base geografica. Le mandorle, per esempio, richiedono molta acqua per crescere, eppure il maggior produttore mondiale di latte di mandorla è la California, uno Stato soggetto a siccità e incendi, dove le piantagioni di mandorle stanno sterminando le api, esposte a pesticidi e a drastici cambiamenti di habitat. Il cocco, invece, che pure è considerato uno dei prodotti più efficienti per la produzione di latte, può diventare un rischio ambientale se diventa l’unica pianta coltivata in un’area. E ancora: la soia necessita di un alto consumo di suolo e il riso di acqua. Secondo le ricercatrici, quindi, bisogna scegliere ogni prodotto non solo in base al contenuto, ma anche alla provenienza (e alla qualità del packaging); infine, non bisogna legarsi a un singolo tipo di latte vegetale, è meglio cambiare spesso varietà, perché anche il latte più green ha un forte impatto ambientale se viene prodotto e acquistato in quantità industriali.
Salute e sostenibilità
Le scelte che facciamo, anche quella apparentemente banale del latte che beviamo, hanno ramificazioni complesse, che a volte ignoriamo o preferiamo dimenticare. Ma perché abbiamo bisogno di più sostenibilità anche a tavola? Perché salute ed ecologia sono strettamente collegate fra loro. Un’alimentazione più salutare per il nostro fisico è quella che privilegia cibi sostenibili anche dal punto di vista ambientale e sociale. Per questo, imparare a sceglierli è importante tanto per il benessere individuale, quanto per il futuro dell’ambiente e delle comunità. Vegetale o animale che sia, scegliere il latte più vicino alle nostre preferenze ed ecologico è un lavoro socialmente utile.
“La terra ha abbastanza per il bisogno di tutti, ma non per l’ingordigia di pochi”, Gandhi.
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