Rinascere è possibile, anche in Uganda: lo racconta la mostra “Tu sei un valore” di Luino
La guerra, gli stupri, le malattie e poi il tornare ad amarsi. Una mostra che racconta le forti e drammatiche vicende di donne che parevano perse e poi hanno incontrato il Meeting Point di Rose Busingye
Inaugurata all’interno delle sale di Palazzo Verbania a Luino, nel pomeriggio del 21 aprile, la mostra “Tu sei un valore”. Alla presenza della fotografa e architetto Marina Lorusso, della moderatrice e dott.ssa Rita Catenazzi, del dottor Alberto Reggiori e di Severgnini Matteo, in collegamento dall’Africa, si sono ripercorsi fatti ed avvenimenti, anche personali, che hanno dato modo ai presenti di poter successivamente guardare con occhi consapevoli le foto e i video in esposizione alla mostra.
Una mostra, promossa dal Centro Culturale San Carlo Borromeo, che racconta l’esperienza di un gruppo di donne ugandesi che hanno saputo riscoprire il proprio valore in condizioni estreme attraverso una domanda, presente in ogni angolo dell’esposizione: “Chi sono io?”.
Un vero e proprio racconto di nomi che ce l’hanno fatta, di luoghi distrutti e poi ricostruiti, di percorsi di vite che si intrecciano e che generano una storia cui anche il visitatore alla mostra è chiamato a prendere parte. La guerra, gli stupri, le malattie e poi il tornare ad amarsi e ad amare.
Si parte da una delle guerre etniche più sanguinose dell’Africa (quella ugandese degli anni Ottanta) e si arriva a uno degli slum più grandi al mondo, a Kampala. Attraverso grandi foto, video e audio, si fa la conoscenza di Rose Busingye e delle “sue donne” del Meeting Point International.
Nell’amicizia con don Luigi Giussani la giovane infermiera Rose aveva riconosciuto il suo valore, aveva incontrato Dio “che ci ama e ci tratta come un tesoro inestimabile” e, lì, la sua vita era cambiata. Una consapevolezza, questa, che la giovane infermiera aveva poi cercato di trasmettere alle donne giunte nel suo slum, fuggite dall’Uganda settentrionale a seguito della terribile guerra. E in quel luogo remoto, che così lontano sembra per i kilometri che ci dividono, quelle donne alla fine sono davvero rinate, hanno ritrovato un posto nel mondo e sono tornate a vivere o, forse non è azzardato dire, “cominciato a vivere”.
Una storia incredibile capace in 30 anni di ridare dignità a persone convinte di non valere nulla, regalando una libertà nuova. Riscoprendo il loro valore infinito queste donne hanno incominciato a curarsi e a prendersi cura dei propri figli, diventando un esempio di resilienza e di forza. Perché rinascere è possibile, anche in Uganda.
Ciò che le ha cambiate è stato il modo in cui venivano guardate e amate. Una condizione che, a loro volta, le ha spinto a osservare il mondo così, con il cuore in mano e la voglia di aiutare. Con questa missione decisero così di iniziare a raccogliere fondi per le popolazione colpite dall’uragano Katrina negli Stati Uniti nel 2005 e dal terremoto all’Aquila nel 2009. Come? Spaccando pietre nelle cave. Un chilo di ghiaia vale 0,70 centesimi: per Katrina furono raccolti 900 dollari, per l’Aquila 1000 euro. E quando chiesero loro perché l’avessero fatto, dissero solo: “Perché il nostro cuore è internazionale”. Anche nel 2009, a seguito del terremoto in Abruzzo, si erano rese disponibili a venire in Italia per portare un concreto aiuto ai nostri connazionali.
Ma il loro impegno per gli altri non si fermò lì, da spaccare pietre iniziarono a dedicarsi alla creazione di collane, per donare un futuro migliore alle loro nuove generazioni. Ed è stato proprio grazie alla vendita di queste collane, avvenuta tramite AVSI, che è stata costruita una scuola per più di 400 bambini di Kampala e acquistati farmaci antiretrovirali per le donne malate di AIDS.
«Ho un’esperienza decennale da medico in Uganda – ha commentato Alberto Reggiori – Queste foto e questi video raccontano la vita reale. Non è una fantasia, sono situazioni sconcertanti. Eppure c’è come un filo rosso che attraversa queste vicende così dure, rendendole umane. Ci sono persone che nonostante tutto, come si evince dalla mostra, sono riuscite a cogliere un barlume di luce che ha riempito il loro volto e i loro sguardi. Che pur nelle tenebre sono riuscite a ricordarsi di quella luce».
«Io non nasco fotografa e non sono appassionata di fotografia, ma questa si è presentata a me come strumento per raccontare ciò che vedevo – ha continua la fotografa della mostra Marina Lorusso – Questo incontro con l’Uganda è coinciso con un periodo faticoso per me, proprio da un punto di vista esistenziale. Avevo tutto eppure non ero felice. Perché le domande dentro di me erano sempre più profonde, e quando sono arrivata alla domanda “ma che senso ha la mia vita?” ho iniziato una ricerca molta profonda. Per me lo scossone reale è arrivato 12 anni fa grazie alla frase: “Dio è tutto in tutti e tutto”. Questa frase diventò un pungolo che mi contrastava e che mi portava a seguire e andare dove vedevo qualcosa di straordinario. Così la decisione: dopo essere partita per alcune mete, tra cui Haiti, dove inconsapevolmente ho fatto il mio primo reportage, ho deciso di dirigermi in quello slum che tanto le mie foto raccontano in questa mostra, per andare a conoscere personalmente quelle famose donne di Rose di cui tanto si parlava. E’ stato proprio in quel luogo che, consapevolmente, ho iniziato a capire cosa la macchina fotografica mi stava aiutando a vedere: il dolore e poi la rinascita, il bello nella devastazione e l’amore per se stessi», ha concluso.
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