Da Travedona a Milano passando da un contratto Sony: Clara canta la fine del “Tempo delle mele”
La canzone della cantante 1999 è un'istantanea della Gen Z, tra citazioni cinematografiche e melodie urban pop. "Il passato mai vissuto di cui tanto sentiamo nostalgia non era solo rose e fiori"
“Crescere per battere la rabbia, pensavo fosse una condanna ma non tornerà più il tempo delle mele, corro nel buio ora che ci so vedere perché riesco ad apprezzare anche il dolore”. È una canzone di similitudine e contrasti Il tempo delle mele, ultimo singolo di CLARA, giovane cantante classe 1999 trasferitasi da Travedona Monate a Milano ad appena 16 anni per intraprendere la carriera da modella e da cantante.
Come intuibile fin dalla copertina della canzone, la canzone naturalmente si collega al film di Claude Pinoteau, un’icona indelebile degli anni Ottanta, un film capace di raccontare una fase di transizione dall’infanzia alla vita adulta secondo i dettami e l’estetica al neon di quella decade tornata in auge nell’ultimo lustro anche grazie a revival, film e serie come Bohemian Rhapsody e Stranger Things, ora che quella generazione di ragazzi è diventata la classe dirigente, ora che la prospettiva si è ribaltata e sono i loro figli a vivere un nuovo Tempo delle mele. Non un remake né un reboot, il Tempo delle mele della Gen Z è semplicemente qualcosa di diverso, e, forse, anche più consapevole.
Abbiamo chiesto a CLARA di parlarcene, partendo dalla sua canzone: un’istantanea personale e al tempo stesso generazionale.
Ciao Clara, come stai? Grazie del tuo tempo, sappiamo che tra shooting, riprese e musica sei molto presa. Come sta andando il lancio del tuo ultimo singolo, Il tempo delle mele?
Ciao! Sono felice di poter dire che sto bene. Sto vivendo un bel periodo in cui mi sto dedicando al 100% alla musica e, più in generale, all’arte. Dietro l’uscita di un singolo c’è un lavoro molto lungo e vederne finalmente i suoi frutti è una grande soddisfazione. Quella de Il tempo delle mele, poi, è stata un’uscita particolarmente emozionante. Venivo da un periodo negativo, in cui mi sono aggrappata alla musica per alzarmi dal letto ogni mattina. Quindi con questo pezzo sento di potermi dare una pacca sulla spalla.
La tua ultima canzone condivide il titolo con il celeberrimo film francese del 1980. Quelli che all’epoca erano ragazzi (e oggi sono, forse, i nostri genitori) lo accolsero come un manifesto generazionale capace di abbattere certi tabù, soprattutto legati alla sessualità, pur nell’ambito della commedia sentimentale e degli equivoci.
(La protagonista, la tredicenne Vic Beretton, parlava esplicitamente di voler “fare l’amore” con Mathieu e scappava di casa per trascorrere la notte insieme a lui). Che valore ha per te il film? Perché hai scelto proprio questa pellicola per la tua nuova canzone?
Ciò che più mi attrae de Il tempo delle mele è che si tratta di un film per certi versi universale e per altri divisore. Tutti, infatti, dai figli degli anni ’60 alla generazione Z, ci possiamo riconoscere nelle emozioni delle prime volte, nei primi amori e nella fase adolescenziale dove ogni piccolo problema sembra enorme e si vive tutto con il cuore a mille.
D’altra parte, per la mia generazione, Il tempo delle mele è la rappresentazione di un immaginario che ha il fascino del vintage, fatto di walkman, attese e incontri fortuiti. Un ideale di adolescenza che ci è stato raccontato dai nostri genitori ma che non vivremo mai allo stesso modo.
Nella tua vita non c’è solo la musica, sei infatti anche modella e attrice. Da “cinematografica” la tua citazione al film diventa dunque “trans-mediale”, come spesso succede oggi per l’arte che comunica sempre di più attraverso forme diverse. Basta pensare alla copertina della canzone, nella quale ri-proponi una versione moderna della famosa scena del ballo del film. Confrontiamo le due immagini: che differenze ci sono tra la generazione di Vic e la tua?
La risposta più a caldo è il passaggio dall’analogico al digitale. Il famoso walkman della clip del film è sostituito da smartphone di ultima generazione. È un simbolo ma in realtà rappresenta un grande divario fra queste due generazioni. I rapporti personali sono cambiati moltissimo ora che è tutto digital. Con i social, in particolare, a volte interagire dal vivo non è necessario e il modo in cui ci dipingiamo agli occhi degli altri è sempre più studiato. Ogni conversazione o incontro perde la sua spontaneità, che forse è invece la parola che più associo al cult.
D’altra parte però non posso non sottolineare i cambiamenti positivi. Come dicevi prima, Il tempo delle mele ha permesso di sciogliere molti tabù. In questo senso penso che la mia generazione stia facendo enormi passi avanti. C’è ancora tanto lavoro da fare ma è indubbio che siamo una generazione molto più inclusiva, aperta al dialogo e libera da alcuni costrutti sociali.
Hai iniziato a lavorare da giovanissima, trasferendoti dal Varesotto, Travedona, a Milano. Lo consideri un gesto coraggioso? Come è stato cambiare vita? Quando canti “Non tornerà più il tempo delle mele?” Ti riferisci anche a questo, all’emancipazione rispetto all’adolescenza?
Sicuramente sono fiera del mio percorso. Sono fiera di aver trovato così presto la mia indipendenza e di poter dire che quello che ho è frutto di miei sforzi e sacrifici. Lasciare una realtà di provincia così piccola come quella di Travedona, un paesino di 4000 abitanti, è da una parte una scelta di necessità e dall’altra una decisione difficile da prendere. Cresci in una bolla e lasciarla può far paura. Io però ho sempre saputo di voler andare via e avevo solo 16 anni quando ho iniziato a fare su e giù da Milano per lavorare. Lo rifarei mille volte ma sì, sicuramente per me il tempo delle mele è quello che ho vissuto a casa con la mia famiglia, quando in qualche modo mi sentivo sempre protetta, anche nei miei sbagli.
Nella canzone una delle parole più ricorrenti è “tempo”. Nell’itpop spesso si associa il tempo al disagio e al malessere, forse perché per Millennials e Gen Z il futuro è sinonimo di incertezza? Allo stesso tempo però il passato, se idealizzato, rischia di diventare una gabbia dorata…cosa ne pensi?
Beh, certamente il nostro presente è molto lontano dai gloriosi anni ’80 dove tutto sembrava possibile. Avere un lavoro sembra sempre meno scontato e il pianeta che abitiamo sta portando a galla tutti i risultati di uno stile di vita materialistico che in un certo senso ci accomuna tutti. Le prospettive rendono difficile guardare al futuro con serenità.
Ma il passato mai vissuto di cui tanto sentiamo nostalgia non era rose e fiori. Il razzismo, l’omofobia, la misoginia. Fenomeni che stiamo ancora combattendo ma che 40 anni fa rappresentavano la normalità.
E poi magari un giorno gli smartphone saranno i nuovi vinili. Si tende molto all’idealizzazione del passato, complice la generazione precedente che non vede bene molti dei cambiamenti che hanno caratterizzato gli ultimi anni.
Se penso anche ai tuoi altri singoli, altri due temi che ritroviamo nelle tue canzoni sono “la stanza” – sembra rappresentare una dimensione privata – e l’equilibrio e la sua mancanza. È un caso che queste parole e immagini siano ricorrenti nei tuoi testi? Hai scritto i brani insieme, o per lo meno nello stesso periodo?
Ho scritto Il tempo delle mele in un periodo molto diverso rispetto a quello dei miei primi singoli, dopo aver affrontato un percorso di crescita importante. Però la dimensione della stanza è una costante. È quel posto dove sento di poter essere vulnerabile e ho la mia catarsi emozionale. Ed è lì, da sola a scrivere, che cerco il mio equilibrio. Ma penso sia una ricerca continua e faticosa, soprattutto a vent’anni.
Domanda scontata, ma inevitabile: sei stata in qualche modo influenzata dalla colonna sonora de Il tempo delle mele? Reality è un pezzo così iconico, in un periodo poi di grande riscoperta sonora degli anni ‘80.
È vero, è un brano simbolo di quegli anni. Però devo dire che è molto distante dai miei ascolti e non mi ha influenzato nella scrittura. In più mi piace che ci sia una forte distanza tra Reality e il mio pezzo: descrive bene la distanza che invece caratterizza i due momenti storici.
Posare e cantare, quanto queste due forme d’arte sono complementari nel tuo quotidiano? Quanto ti aiutano a stare bene? E quanto si pestano i piedi nel tuo calendario?
In tutta onestà, quando ho iniziato a posare avevo già in testa la musica. Avevo bisogno di rendermi indipendente e di avere quei guadagni da investire sulla mia carriera musicale. Se all’inizio amavo posare perché mi permetteva di avvicinarmi al mio obiettivo, adesso lo considero un’altra forma di espressione della mia arte. Mi piace perché mi permette di esprimere in modo tridimensionale il mio personaggio artistico.
A livello artistico, invece, sono due modi diversi di mettersi a nudo? Oggi, con l’utilizzo massivo che facciamo dei social è facile mostrarsi – al pubblico, agli amici – ma questo non significa per forza saper mettersi a nudo o raccontarsi. Cosa ne pensi? Filtrare la realtà è per forza qualcosa di negativo? Alla fine l’arte è un primo filtro, una rielaborazione (artefatta) della realtà.
Dal mio punto di vista non reputo l’arte un filtro. È vero, non si tratta di una rappresentazione oggettiva dei fatti, ma è la mia realtà. In più sono molto istintiva e quello che racconto è solo quello che vivo.
Per quanto riguarda i social mentirei se dicessi lo stesso. Credo che siamo tutti condizionati, chi più chi meno, dal giudizio di chi è dall’altra parte dello schermo. E la possibilità, almeno ideale, di potersi mostrare al meglio delle proprie possibilità è allettante. A volte condivido sul mio profilo pensieri più intimi e lontani dalla vita perfetta che si tende a voler mostrare. Però solo con la musica riesco a mettermi davvero a nudo.
Sei entrata nel mondo discografico dalla porta principale, insieme a Sony. Che esperienza è stata? Il mondo della moda ti ha aiutato in qualche modo per le tue prime esibizioni live? Qual è invece il rapporto con lo studio di registrazione, un ambiente diverso, privo di pubblico e molto lontano da palco e passerelle, ma comunque molto creativo.
Entrare nel mondo discografico è un’esperienza impattante. Da registrare nella cameretta di un mio amico sono passata a far musica in grandi studi professionali e con produttori che stimo moltissimo, quello che fino a poco tempo prima sembrava solo un sogno lontano. L’intimità dello studio di registrazione mi permette di tirare fuori tutto per poi rimetterlo in ordine. Il rapporto con il pubblico è sicuramente qualcosa che amo e che spero di approfondire, ma sempre in relazione alla musica.
Non penso che la moda mi abbia aiutata ad entrare in questo ambiente. Per certi versi a volte si rivela un ostacolo e sembra che mi faccia perdere di credibilità. Probabilmente anche perché negli ultimi anni sempre più persone hanno iniziato a fare musica. Ma per me, da quando ero bambina, l’obbiettivo è sempre stato questo.
Come nasce una canzone di Clara? Cosa c’è nella tua playlist che poi finisce nella tua musica?
Le mie canzoni sono spesso flussi di coscienza. Soprattutto quelle più intime sono poco studiate e molto viscerali. A volte tendo a voler apportare tante modifiche all’ultimo, ma è un mio vizio perché voglio essere sicura al 100% di ciò che registro, perché una volta pubblicato un pezzo è definitivo, come un tatuaggio. Spesso, però, il brano originale è vincente.
La mia playlist è molto varia. In questo periodo ascolto moltissimo artisti latini e spagnoli come Nathy Peluso e Morad, ma non mancano i riferimenti che ho fin da piccola come Amy Winehouse.
Poco prima del lancio della canzone su Instagram hai scritto “Non vedevo l’ora di tornare. E ora non mi fermo più”. Quali sono i tuoi programmi per il futuro prossimo? Hai qualche evento in programma nel Varesotto?
Alcuni progetti sono top secret ma spero di poterveli annunciare presto! Ho in programma dei live, per ora posso dire questo. Nel Varesotto per ora niente di confermato, ma sarei felicissima di tornare ed esibirmi dove mi hanno vista crescere.
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