Come eravamo: la vita di Arcumeggia raccontata in dialetto da Gregorio Cerini
Ha suscitato grande interesse il testo dello scrittore dialettale: uno spaccato antropologico della vita nelle valli di cent’anni fa da gustare con la “realtà aumentata“ del dialetto
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Un po’ letteratura dialettale e un po’ raccolta di racconti, storia di un luogo e memoria di una comunità. Scritto prezioso, quello di Gregorio Cerini, “Vita di paese ai tempi de panarie e dul val” che serve a trasmettere emozioni di un tempo, a far vivere i luoghi in maniera immortale servendosi del vernacolo, lingua graffiante poetica, capace cioè di descrivere dal basso e in maniera diretta il tutto servendosi di pochissime parole.
Un lavoro sentito che ha lasciato col sapore della valle in bocca un bel pubblico di giovani e meno giovani spintosi sabato pomeriggio fino al paese dipinto per ascoltare le letture direttamente pronunciate da Cerini, 82 anni, nato nel paesino della Valcuvia, frazione di Casalzuigno e che da sempre si porta il suo borgo nel cuore. Il libro introdotto dall’editore di “Menta e Rosmarino“ Alberto Palazzi ha quindi una duplice valenza: quella sul piano narrativo si esplicita con un testo in dialetto tradotto da Angela Viola così da permettere a chiunque di seguire le linee del racconto per orientarsi e non perdere la strada in parole dimenticate.
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E poi viene l’archeologia dei sentimenti, la lezione di antropologia legata agli usi della vita in queste zone che un tempo erano agricole, legate all’allevamento e al governo del territorio che splendeva sotto i colpi di falce, i muretti a secco per delineare le proprietà «che addirittura, negli atti notarili, venivano a figurare con nomi dialettali, la “selva”, ul “runc”, e altri», ha spiegato lo stesso Cerini (nella foto sotto, durante un momento di lettura) nella presentazione del libro che ritrae attraverso la vita e poi il fraseggio amoroso dei due personaggi, Felicita e Genisio, il tratteggiare delle esistenze immerse nella quotidianità del paese. Un libro per certi versi di formazione, che narra di un microcosmo dalle infinite espressioni e spiega i piccoli riti di passaggio dall’età acerba a quella matura.
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Per esempio il padre del Genisio che un bel giorno all’oste comandò non più un quarto di rosso e una spuma bensì mezzo litro con due bicchieri. O l’esilarante racconto della prima notte di nozze dove alcune delle comari di Felicita si fanno in segno della croce dopo che la coppia, andata ad appartarsi all’ultimo piano della casa addobbato da appartamento nuziale, ha cominciato a dare segni di amoreggiamento grazie al baccano fatto dalle padelle legate al letto, vecchia usanza di queste parti, proprio per dare certezza della consumazione del matrimonio servita sull’eco di padelle e coperchi che si scontrano, “timbro“ da far udire a tutto il paese. Un “just married” pronunciato in salsa valcuviana, con la lingua che si parlava – e che pochissimi ancora oggi padroneggiano da queste parti – che nel vernacolo del Cerini si traduce “e prima nocc”.
Dunque oltre alle storie che messe nero su bianco rappresentano uno schedario dei ricordi, il tuffo nel passato è assicurato grazie al vernacolo. Una lingua che rappresenta alla fine una sorta di “realtà aumentata” ai tempi del metaverso che consente di immergersi completamente in uno stile di vita, un modo di vivere e ripensare il presente che un tempo, forse molto più inconsapevolmente di questo avviene nei giorni nostri, era puro contatto diretto con la natura e rispetto dei tempi scanditi dalle stagioni, lassù in montagna, nella bella Arcumeggia.
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