Impugnata la decisione della Corte d’Appello che indennizza Stefano Binda
Caso Lidia Macchi: secondo la Procura Generale di Milano il silenzio dell’imputato avrebbe concorso all’errore della sua carcerazione

La Procura Generale di Milano ha impugnato l’ordinanza della corte d’Appello sempre del capoluogo lombardo che aveva recentemente deciso a favore dell’indennizzo per ingiusta detenzione a beneficio di Stefano Binda, scagionato dall’accusa di essere l’omicida di Lidia Macchi nei procedimenti penali a suo carico (nella foto, Binda la sera del ritorno in libertà, nel luglio 2019).
La sua ingiusta detenzione gli varrebbe, secondo la Corte di Milano, un indennizzo di oltre 300 mila euro (non è stata invece concessa la somma richiesta dai difensori Sergio Martelli e Patrizia Esposito di 50 mila euro a titolo di danno «endofamigliare» dovuto cioè all’assenza dell’uomo dalla casa in cui vive assieme alla madre e alla sorella). Il colpo di scena viene servito da un articolo del Corriere della sera che annuncia il ricorso della Procura Generale di Milano a firma della procuratrice Laura Gay. Il punto su cui il ricorso fa leva, riguarda la facoltà di non rispondere di cui si è avvalso l’indagato Stefano Binda, atteggiamento di Binda che più volte si è avvalso di questo preciso diritto dell’indagato.
Ma l’ultima decisione dei giudici milanesi – quella sull’indennizzo per ingiusta detenzione – non aveva il fine di stabilire se Binda fosse o meno colpevole (come avvenuto per i giudici dei tre gradi di giudizio) bensì il valutare le ipotesi di sussistenza di dolo e colpa grave in punto di responsabilità riguardo l’emissione del provvedimento cautelare: Binda col suo comportamento ha o meno «viziato» la decisione dei giudici che hanno deciso per la sua carcerazione? Secondo la Procura Generale (che già si oppose all’indennizzo) sì, in virtù – ricorda il Corriere – di una recente decisione della Cassazione.
Non sono dunque bastate le due sentenze di assoluzione che hanno ribaltato l’ergastolo comminato in primo grado dall’Assise di Varese a Binda, accusato di aver assassinato Lidia Macchi fra il 5 e il 6 gennaio del 1987. E non è bastata neppure l’ordinanza della quinta sezione della Corte d’Appello di Milano che non più tardi di qualche settimana fa sembrava aver messo la parola “fine” alla clamorosa vicenda processuale dalla quale il 54enne di Brebbia è uscito innocente e con l’intenzione, per questo, di chiedere un indennizzo per i 1.286 giorni di ingiusta detenzione in carcere (dal gennaio 2016, arrestato in custodia cautelare, fino al 24 luglio 2019 dopo la pronuncia di assoluzione all’Assise d’Appello di Milano). Ora la palla passa alla suprema magistratura che dovrà decidere sul ricorso.
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