Stefano Binda e l’indennizzo per l’ingiusta detenzione: così la decisione dei giudici di Milano

L'ultimo scoglio rappresentato dalla possibilità di impugnazione del provvedimento da parte dell’Avvocatura dello Stato che ha 15 giorni per rivolgersi alla Cassazione

Testimonianza Stefano Binda processo Lidia Macchi

Tre anni, sei mesi e 10 giorni: è questa la durata dell’ingiusta detenzione patita da Stefano Binda, accusato e condannato in Corte d’assise all’ergastolo per l’omicidio nel 1987 di Lidia Macchi e poi assolto nel 2019 in secondo grado, e successivamente in cassazione.

Ieri la quinta sezione della Corte d’appello di Milano presieduta dal giudice Antonio Nova ha deciso, e nelle 22 pagine dell’ordinanza scritta dal giudice estensore Micaela Serena Curami è arrivato quello che i difensori Patrizia Esposito e Sergio Martelli speravano: il completo accoglimento della richiesta di indennizzo, che è arrivato, e al centesimo: 303.277 euro, pari a 235 euro al giorno moltiplicate per i 1286 giorni di detenzione in carcere, oltre alla condanna al Ministero dell’Economia e della Finanze a rifondere le spese sostenute, pari a 1.500 euro. Non è stata invece concessa la somma di 50 mila euro a titolo di danno «endofamigliare» dovuto cioè all’assenza dell’uomo dalla casa in cui vive assieme alla madre e alla sorella.

«La decisione dei giudici segue uno schema preciso che parte dall’ordinanza di custodia cautelare disposta dal Gip di Varese l’11 gennaio 2016, poi viene messa a confronto la sentenza di primo grado e d’appello chiarendo i punti dell’una e sono inoltre state valutare le ipotesi di sussistenza di dolo e colpa grave in punto di responsabilità riguardo l’emissione del provvedimento cautelare, ed è stato valutato che l’emissione del provvedimento non dipendeva dal suo comportamento. È stata dunque accolta richiesta di indennizzo nonostante il parere negativo di reiezione da parte della Procura generale che tuttavia poggiava sulla sola sentenza di primo grado, poi ribaltata in appello e Cassazione».

Nella decisione dei giudici milanesi viene ribadita la cedevolezza dei requisiti di impugnazione da parte della Procura generale, in particolare l’insussistenza della tesi secondo la quale Binda avrebbe dato sei versioni diverse dei suoi movimenti il 5 gennaio 1987, «Binda ha sempre dato una sola versione dei suoi movimenti di quello sventurato 5 gennaio 1987, e lo ha fatto da testimone il 13 febbraio 1987», scrivono i giudici milanesi. Ora, per mettere definitivamente fine a questa storia, c’è da attendere i passi che vorrà intraprendere l’Avvocatura dello Stato che potrà, entro 15 giorni, impugnare il provvedimento in Cassazione.

Ma che vita è oggi quella di Stefano Binda? «È una vita da scagionato», aveva risposto all’indomani della ricorrenza del suo arresto avvenuto il 15 gennaio 2016 quando ad attenderlo all’inizio delle scale della sua abitazione nella campagna di Brebbia, paesino sul Lago Maggiore, oltre alla squadra mobile di Varese c’erano le telecamere delle tv per riprendere il momento dell’arresto e della conduzione in carcere in auto. Binda, che ha compiuto 55 anni il 12 agosto ora passa le sue giornate leggendo e traducendo, «e mi dedico al volontariato in due associazioni della zona molto attive e con una rete piuttosto consolidata e strutturata sul territorio».

Ieri poco dopo la comunicazione della decisione dei giudici di Milano Stefano Binda ha ribadito la sua innocenza, e il fatto di essersi potuto difendere, uno dei pochi, non a piede libero ma in carcere, dove peraltro ha in tutti gli anni della detenzione mantenuto una condotta esemplare, aiutando e sostenendo gli altri detenuti. Una storia per la quale – forse – sta per scriversi definitivamente la parola fine.

Del resto sull’immagine del profilo wtatzapp del diretto interessato c’è un messaggio inequivocabile. Una scritta ricavata da un titolo di giornale, probabilmente la foto di una locandina a caratteri cubitali messa fuori dall’edicola il giorno dopo della decisione della Cassazione che recita: «Delitto Macchi, assoluzione definitiva per Binda». Una scelta che svela quanto siano stati profondi i segni della carcerazione, e quanto possa rappresentare ancora oggi nei pensieri di un uomo le giornate nel ricordo della privazione della libertà. Un bene che non ha prezzo.

IL CASO LIDIA MACCHI 

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 13 Ottobre 2022
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