Da Varese allo Zambia. L’esperienza in Africa di Giovanni: “Qui bisogna guadagnarsi tutto”

Giovanni Riganti ha 31 anni, è nato e cresciuto a Varese, nel quartiere di Biumo Inferiore. Fa l’infermiere e da qualche settimana sta vivendo un’esperienza di vita forte e che sicuramente resterà per sempre nella sua mente e nel suo cuore

Da Varese allo Zambia: l'esperienza di vita in Africa di Giovanni Riganti

Giovanni ha 31 anni, è nato e cresciuto a Varese, nel quartiere di Biumo Inferiore. Fa l’infermiere e da qualche settimana sta vivendo un’esperienza di vita forte e che sicuramente resterà per sempre nella sua mente e nel suo cuore.

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L’ho conosciuto sui campi di calcio a sette, lui al seguito della compagine del suo quartiere, io con i “miei” Bidone: tra le nostre squadre, per una serie di motivi fatti di passione, vecchi ricordi di calcio vero, affinità, è nata un’amicizia che può solo portare buoni frutti, come quello che stiamo per raccontare. Nei giorni scorsi sui social Giovanni ha pubblicato alcune foto dall’Africa, gli ho chiesto se avesse avuto voglia di rendere pubblica la sua esperienza di vita ed ecco quello che ne è venuto fuori: un racconto ricco, pieno e che fa riflettere.

Questa è la prima parte del racconto di Giovanni:

Intanto grazie per avermi scritto e avermi dato la possibilità di fermarmi a ripensare un po’ a questi primi giorni. Mi chiamo Giovanni Riganti, sono un infermiere e lavoro presso l’istituto Provvida Madre, che si occupa di disabili mentali e motori. Insieme ad un gruppo di amici faccio parte della società sportiva ASD Beato Samuele Marzorati dell’oratorio di Biumo Inferiore, che comprende squadre di calcio, basket e pallavolo.

In questo momento mi trovo in Zambia, più precisamente a Mazabuka, una città a Sud della capitale Lusaka; qui dal 2017 la diocesi di Milano, tramite un Fidei Donum, ha aperto una nuova parrocchia. Sono ospite del parroco Roberto Piazza, nativo di Milano, e del varesino don Stefano Conti, mio primo contatto per questa avventura.

La mia scelta di fare questa esperienza non ha una precisa data di inizio, è un po’ da sempre che mi affascinava l’idea: mi ha sempre incuriosito sentire parlare tanta gente che ha vissuto con la famiglia in Africa, che si è messa in gioco, che ha viaggiato, e per questo ho voluto dedicare un mese ad approfondire questa intuizione. Mi ha aiutato anche il fatto che conoscessi qualcuno presente “sul campo” (e il campo ha effettivamente riconfermato che un’avventura alla cieca sarebbe stata molto più problematica). Più che la ricerca di chissà quali risposte alla mia vita, mi ha spinto la curiosità di capire perché tanta gente fosse rimasta colpita da questo paese tanto da innamorarsene, che cosa ci trovasse di così speciale. In secondo luogo stavo cercando di rimettere a fuoco la mia vita quotidiana a Varese, a partire da tutte le fortune che ho e abbiamo solo perché siamo nati in un posto anziché in un altro.

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Dunque il passaggio è stato semplice: ho chiesto un mese di congedo al lavoro e sono partito, perché senza la mia mossa tutte queste idee non sarebbero state nient’altro che belle parole vuote. La vita a Mazabuka è riassumibile in un concetto molto semplice: bisogna guadagnarsi tutto.

Il popolo zambiano è molto povero, non è scontato mangiare due volte al giorno; si fatica non tanto a reperire il cibo, perché i negozi e i mercati ci sono, ma più che altro a guadagnare i soldi. Non ci sono molte possibilità a livello lavorativo; molta gente lavora al mercato, altri trovano vari lavoretti saltuari, ma i concetti di stabilità e continuità lavorativa quasi non esistono. Vista la situazione, per assicurarsi da mangiare tutti piantano mais nonostante la terra sia dura e arida per molti mesi all’anno.

L’anno scorso ha iniziato a piovere a metà dicembre; quest’anno, da buon varesino e per grande gioia di tutti, l’acqua l’ho portata io dopo 7 mesi di siccità assoluta. La vita ha ritmi completamente diversi dai nostri: tutti si alzano all’alba, verso le 5.30, bambini inclusi, e iniziano una giornata che finisce verso le 18, quando il sole tramonta in poco più di mezz’ora e scende la notte fonda. Per noi la giornata inizia verso le 6.30 e durante i primi giorni la sera andavo a letto alle 20.30. Io ho la doccia, il cibo, un letto “normale” e non mi manca nulla.

Durante i primi giorni mi sono dedicato un po’ a conoscere il posto e la gente del luogo; dopodiché sono stato in una “special school” nel quartiere Flambuya. La definiscono “special” perché frequentata da ragazzi disabili di tutti i tipi, senza meglio specificate diagnosi: un cocktail micidiale di ragazzi sorridenti e casinisti come tutti, solo che qui il concetto delle regole è un po’ più lasso. Non c’è stato tempo di stare lì a inventarsi molto: bisogna aprire mente e cuore e mettersi in gioco; fatto questo passaggio, poi si va. Certo, bisogna guardare in faccia la dura realtà: i giochi che hanno sono spesso rotti e sporchi, le mani si lavano alla fontana fuori, i fogli di carta sono tutti riciclati e le matite non hanno tutte le punte; però se solo accendo la radio, tutti cantano e ballano come matti, anche gli zoppi.

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Ovviamente qui non esistono ausili come carrozzine, sollevatori, sedie con sedute speciali… Se stai su quello che hai, bene, altrimenti purtroppo devi sederti per terra con un cuscino. L’apice l’ho raggiunto sul pullmino: un viaggio con 15 ragazzi africani che giocavano a fare i versi degli animali (e anche qui il verso del maiale fa ridere tutti). Mi ha colto la tenerezza quando ho visto una ragazza di 13 anni che aspettava il fratello coetaneo alla fermata, un po’ in disparte, quasi imbarazzata (e la capisco benissimo) per la condizione del fratello; poi se l’è caricata in spalla, perché non cammina, e l’ha riportato a casa continuando a fare i versi degli animali per farlo ridere e distrarlo. Ho provato ad immedesimarmi in quella ragazza che attraversava la sua città grugnendo con un disabile in spalla. Un’umanità meravigliosa, non saprei come commentarla, e forse non è il caso di farlo. Sono fortunato semplicemente ad aver visto e ho ancora tanto da imparare.

Mi ha colpito anche quando nel bel mezzo del nulla africano, a 30 minuti di jeep da casa nostra, siamo andati a trovare una comunità. In mezzo al nulla hanno scavato un pozzo e attorno hanno costruito case di fango; i mattoni li hanno usati per la scuola e per costruirsi una piccola chiesa. È stata una giornata molto sfidante, nella quale ogni tanto mi sono chiesto: “Ma queste persone non possono andarsene da qui? Come fanno a voler vivere facendo così così tanta fatica? Per prendere una tanica d’acqua alcuni camminano 20 minuti!”. Poi i miei compagni mi hanno fatto riflettere sulla grandezza di questa gente: sono nati qui e nel bel mezzo del nulla si sono messi a cercare acqua, hanno costruito una scuola per studiare inglese e una chiesa che fa da punto di incontro per tutta la gente della zona, alla sera cantano e la domenica mangiano tutti insieme. Avrebbero potuto restare nel loro brodo, lamentarsi o spaccarsi la schiena senza fiatare e non sarebbe cambiata la vita di nessun altro; ed invece nel bel mezzo del nulla africano questa gente si dà da fare e questo insegna a tutti, in primis a me, che la possibilità di fare qualcosa di grande è data a tutti, non solo a chi è benestante o può permetterselo. Certo, è qualcosa che non si può fare da soli.

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Ecco, sicuramente ho imparato nuovamente che le mie lamentele sono spesso dettate dalla solitudine; ho imparato quanto possa aprire la mente stare insieme agli altri e che questo, in qualsiasi posto del mondo, ci dà la possibilità di cambiare la storia, perché ci fa muovere e costruire qualcosa di grande.

Giovanni Riganti

Tommaso Guidotti
tommaso.guidotti@varesenews.it

A VareseNews ci sono nato. Ho visto crescere il giornale e la sua comunità, sperimentando ogni giorno cose nuove. I lettori sono la nostra linfa vitale, indispensabili per migliorare sempre.

Pubblicato il 16 Novembre 2022
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