Amava i Beatles
di Gian Paolo Zoni
È un cielo di vecchiaia, grigio, opaco. Samantha e io ci avviciniamo al monumento. I suoi capelli profumano di violetta. Quando ho deciso di venire a Washington, mio figlio era contrario. «Sei anziano papà. Non è come andare da Winston a comprare il giornale. Dovrai prendere l’aereo e con la tua gamba non sarà un viaggio agevole». L’ho lasciato parlare, e poi ho fatto quello che mi pareva. Figurarsi se gli do retta. L’unica cosa buona fatta in tutta la sua vita si trova qui accanto a me, e mi tiene per il braccio.
È vero, la gamba duole, i chiodi e le viti inserite nell’autunno del ’67 non danno tregua. A volte maledico lo stupido incidente in auto che mi fa zoppicare da allora, ma oggi, oggi lo benedico. Forse il mio nome sarebbe lì, sopra quei lastroni di marmo, scolpito in caratteri d’oro, insieme a migliaia di altri nomi e magari, proprio vicino a quello di Bill.
Di Bill ho ricordi incompleti. Frammenti e schegge balzano ogni tanto in superficie. Era mio amico, il migliore che avessi, suonava la chitarra e cantava. La sua voce ruvida era perfetta per ballate alla Johnny Cash, non esistono nastri per poterla ascoltare, ma fidatevi, sapeva cantare.
«Sei stanco nonno? Siedi su questa panchina, lo cerco io Bill».
«Ok Sam». Soltanto io posso chiamarla così senza che risponda in malo modo, chiedete a suo padre se non è vero.
Bill e io sognavamo di creare una band, stile Rolling Stones o Lynyrd Skynyrd, non avevamo le idee molto chiare. Lui voce e chitarra, io me la cavavo con le tastiere ed ero bravo a scrivere testi, o almeno così disse Dean Fargo, un disc jockey di Tucson.
Un paio di mesi dopo il mio ricovero arrivò la cartolina. Ero ancora in ospedale, con la gamba appesa a una forca. Bill entrò nella stanza, la dividevo con un operaio della Star Oil, il poveretto aveva ustioni su tutto il corpo, una mummia, gridava di continuo. Bill si avvicinò al letto e mi mostrò il cartoncino giallo. Avrebbe dovuto presentarsi a Phoenix il lunedì successivo.
Quando tornò non era più lui. La guerra cambia le persone, le trasforma, e quasi mai in meglio. Non si può passare indenni tra quei sentieri. Ricordo l’ultima conversazione. Aveva deciso di ripartire, recarsi di nuovo laggiù, nell’inferno.
«Ritornare in Vietnam?» Lo aggredii. «E i nostri progetti? I tuoi sogni?»
«Dispersi nella giungla». Rispose. «Rotolati in fondo a una buca fangosa come bossoli roventi di un M16».
Rimasi in silenzio. Ero furioso.
A marzo inoltrato giunse la notizia che era stato ucciso in un posto vicino a Da Nang. Non piansi. «Nonno. L’ho trovato». Samantha conduce la mia vecchia carcassa verso il lato est della struttura.
«È lì.» Dice. Mi avvicino, inforco gli occhiali, e sì, lo vedo adesso, Bill Rimar. Allungo le dita per sfiorare le lettere dorate e un’antica lacrima si fa strada tra le mie rughe.
Ispirato a C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stone, Gianni Morandi 1967
Racconto di Gian Paolo Zoni (www.ilcavedio.org). Illustrazione di Mauro Speri
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