Alberto Pellai: “Lasciamo andare i nostri figli, senza rischio non può esserci crescita”

Le tragedie di questi giorni che hanno coinvolto giovanissimi ripropongono l'enorme dilemma: lasciar vivere le esperienze o controllare i nostri ragazzi? La risposta dello psicoterapeuta e scrittore

Scout varese

Tragedie devastanti. Un figlio che esce di casa e non torna: è l’incubo con cui deve convivere ogni genitore. La ragazzina di 16 anni morta al campo scout in Val Camonica e l’incidete che ha coinvolto Christian e Chiara ripropongono l’eterno dilemma: lasciare andare i figli, far vivere loro ogni esperienza, o controllarli finché è possibile anche a costo di limitare la loro libertà?

A questa difficile domanda ha cercato di rispondere Alberto Pellai , medico e psicoterpeuta dell’età evolutiva, e scrittore. La sua pagina Facebook è molto seguita anche perché nei suoi post cerca di dare consigli “pratici” e guidare genitori preoccupati alle prese con figli sempre più inquieti.

Ecco il suo ultimo post
Noi genitori in queste settimane vediamo i nostri figli preadolescenti e adolescenti partire e tornare. Sono le settimane delle vacanze con gli scout, dei campi estivi con le loro associazioni sportive, delle esperienze con la parrocchia o gli oratori, dei campus-laboratorio in cui si cimentano negli ambiti verso cui provano passione. Affidiamo i figli ad altri educatori perché vivano esperienze con compagni e amici in un contesto che garantisca anche una proposta educativa. E’ chiaro che leggere ciò che l’allarme meteo rappresenta per chi si trova a trascorrere una settimana lontano da casa ci riempie di ansia e paura.

In questi giorni molti genitori mi scrivono domandosi se sia il caso di mandare un figlio a vivere questo genere di esperienze perché, come è già avvenuto qualche giorno fa, “come fai ad essere certo che non accada nulla?” “E se poi non torna più?”. Il dolore di chi perde un figlio per un incidente dovuto ad un evento naturale non credo sia comprensibile. Vedere la vita della persona che ami di più rubata da un evento accidentale è uno strazio che ci fa rabbrividire di sgomento, paura, tristezza. Però, la domanda adesso è: “Perciò, a questo punto, non li facciamo andare più da nessuna parte? Oppure li facciamo viaggiare solo con noi, in modo che gestiamo i pericoli secondo il criterio che a noi risulta più protettivo?”.

Pensiamoci bene: da quando li mettiamo al mondo, i nostri figli devono attraversare il territorio del rischio. Senza rischio non può esserci crescita. L’iperprotezione è quell’attitudine genitoriale per cui mi tengo sempre un figlio a portata di sguardo. So dov’è, so cosa fa, controllo ogni sua mossa ed eventuale rischio. Ma questa attitudine in realtà distrugge la crescita di un figlio. Vivere appiccicati ai genitori che ti iperproteggono è l’esatto contrario di ciò che serve ad un figlio per diventare grande.

Perciò? Perciò dobbiamo correre il rischio di provare ansia. Di stare in apprensione costante, quando fatti come quelli di questi giorni minano nel profondo il nostro bisogno di certezza e di protezione. C’è un rischio associato al vivere che non è cancellabile. E vivere non comporta proteggersi da tutti i rischi possibili. Bensì prevenire il rischio calcolabile e che dipende da noi. Poi c’è l’imprevedibile. L’accidentale. L’incontrollabile. E ne siamo tutti in balia. Vedere partire e tornare i miei figli in questi giorni mi punge sempre il cuore. Mi inonda la mente di pensieri così carichi di ansia e di paura che vorrei non percepirli mai accesi dentro di me. Eppure so che il mio compito non è fermarli. Ma lasciarli andare incontro alla vita. Con tutto quello che ha da offrire loro. Il bello e il brutto. Il bello lo devono trovare, cercare, scoprire e poi amare e cercare di nuovo. E il bello entra nella vita solo se ci vai incontro, se impari a desiderarlo. Il brutto bisogna evitarlo e prevenirlo.

Ma la vita accade. E non tutto è arginabile. Quando succede qualcosa di terribile che non abbiamo potuto evitare, ci troviamo esposti di fronte ad un abisso che ci strazia e provoca un dolore enorme. Un abisso che ci spinge a farci domande che spesso rimangono senza risposte. Si entra in quella zona sospesa del nostro esistere dove tutti i grandi temi del vivere, tutti i dubbi, tutta la percezione della nostra impotenza e del nostro sentirci in balia degli eventi ci intrappolano in una gabbia interiore che sembra non avere vie d’uscita. Essere adulti è trovare la chiave di quella gabbia e sentire che una via d’uscita c’è. Si chiama speranza. Affidamento. Costruzione di un senso di appartenenza alla comunità. Possibilità di non sentirsi soli e disperati di fronte a ciò che non è stato possibile evitare e quindi è accaduto. Dirlo con le parole può anche sembrare semplice. Viverlo è la fatica più tremenda che esista. Eppure è possibile.

Scrivo queste poche righe per i genitori che oggi vivono un dolore che per noi risulta incomprensibile e che a loro invece schianta il cuore. Scrivo queste parole per tutti noi adulti, perché l’ansia e l’angoscia non diventino l’unico motore che genera le scelte con cui prendiamo decisioni che potrebbero tenere vivo il corpo dei nostri figli, ma far ammalare la loro interiorità. E ogni giorno non smetto di sperare. E la cosa che più mi aiuta a stare vivo.
Ho ricevuto molte richieste da tanti genitori pieni di ansia e preoccupazione di fronte alle partenze dei figli in queste due settimane, a causa di ciò che il meteo ha provocato in moltissimi luoghi. L’ho fatto anche per tutte quelle famiglie e quei ragazzi e ragazze che hanno vissuto momenti di paura, terrore, angoscia e possibile traumatizzazione diretta o indiretta. Se pensate che a qualcuno possano servire, condividetele.

Alberto Pellai

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 27 Luglio 2023
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