America
di Gianluca Fiore
A me è sempre piaciuto parlare, ma quella notte rimasi senza parole. Guardavo la nave da sotto, una massa scura che mi scrutava e avrebbe inghiottito me, e centinaia di altri disperati che tentavano la fortuna in America. Al molo faceva freddo, e lacrimavo. Non so se per la temperatura o per la paura di affrontare il viaggio da solo, il primo della vita. Lo avevo sognato, questo primo viaggio, in modo così diverso. Con il treno, per vedere il paesaggio che corre e non puoi afferrare nulla. E sentire la carezza dell’aria lungo il collo, fin dentro la camicia, gonfia. E invece no. Il tempo di finire le medie, ed eccolo, il mio futuro lontano da tutto. Per la fame. Le ristrettezze. La mancanza di lavoro. Ma anche per l’amore dei genitori, che pur di salvarmi rinunciavano a me.
E il momento era arrivato. Ammassato con una umanità disperata. Urla, risate, schiamazzi, spintoni. Alcuni si picchiavano, ancora prima di salire. Sguardi torvi, e tristi. E un tanfo che non scorderò mai, aspro. Ci avrebbe accompagnato per tutta la traversata.
Ho sempre pensato che le parole mi avrebbero salvato. A casa, spesso, mi facevano raccontare le storie per addormentare i fratelli più piccoli. Inventavo favole per loro, facevo vivere fantasmi buoni estreghe cattive, o buffe creature. Le parole, una magia. Così conquistai la mia prima ragazzina. E anche allora, in quel viaggio di notti troppo lunghe, la parola mi aiutò. Quando si poteva perdere tutto. Soldi, vestiti, innocenza, verginità. Raccontavo ai miei compagni storie inventate, ma credibili. Li portavo in giro nel mondo dell’immaginazione, per scappare dalla realtà. Per non vedere.
Settimane di stenti, con quei tozzi di pane secco e formaggio che mia madre aveva preparato, calcolando con la sua precisione certosina quanto cibo mi sarebbe servito. Il tutto, in un tovagliolo ricamato, che sarebbe sopravvissuto negli anni. Verde pallido, con una farfalla che vola via. In fondo, come me.
E una mattina, all’alba, il mio vicino mi svegliò. Mi feceguagliò, simm’arrivati negli States. Controllai i soldi, cuciti nell’elastico delle mutande. Li avrei consegnati ai funzionari dell’Immigrazione. E poi di corsa su in coperta, all’aria di mare e terra, alla fine sorpreso dalla felicità. O forse dalla disperazione, perché allora capii di non essere più a casa.
Mi affacciai, il molo era una massa ondeggiante di gente come me. Ci si cercava, solamente. Incrociai due occhi neri, accanto a mio zio. Era mia cugina, nata in America, ma questo l’avrei scoperto dopo.
Era la cosa che mi scaldò più di qualsiasi benvenuto.
Racconto di Gianluca Fiore (www.ilcavedio.org)
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