Dalle querele alla cancellazione Google, così si cerca di fermare le inchieste giornalistiche
Le azioni penali contro chi scrive sono uno strumento "classico" di intimidazione. Ma oggi chi vuole zittire le voci critiche usa anche altri strumenti. Anche ai giornalisti servono nuove iniziative per difendersi?
Querele senza fondamento, cause civili, ma anche la richiesta a Google di rimuovere contenuti sgraditi, per renderli non più rintracciabili. Sono gli strumenti – vecchi e nuovi – usati per fermare il lavoro dei giornalisti, spaventarli, convincerli ad abbandonare le inchieste.
L’inchiesta giornalista “d’indagine” è la forma più complessa – e per certi versi più “alta” – di giornalismo. Oggi si fa sempre meno da soli, sempre più in rete (tra giornalisti e testate di Paesi diversi), con nuovi strumenti legati al digitale. Mentre al contempo nuove armi usa chi vuole tenere nascosto comportamenti illegali, illeciti o eticamente discutibili.
Centrale anche oggi resta, come in passato, «costruire un rapporto di fiducia nei confronti delle fonti», dice Cecilia Anesi, co-fondatrice di Irpi e membro del comitato editoriale di IrpiMedia, intevernuta giovedì al festival Glocal. Se “Gola profonda” ai tempi del Watergate si presentava – nella ricostruzione cinematografica – nascosta nell’ombra, ogi l’anonimato di chi passa informazioni è garantito anche da specifiche piattaforme digitali che assicura che sia irrintracciabile anche dal giornalista. «Anche se poi la fonte digitale anonima richiede maggiori e più approfondite verifiche».
Lavoro difficile, che richiede di ‘scremare’ tante segnalazioni diverse non sempre valide: «Se la fonte mi porta documenti si può iniziare a lavorarci», dice Vittorio Malagutti, protagonista di tante inchieste sul mondo bancario e sugli scandali del settore. «La fonte non sempre, anzi quasi mai, parla per motivi nobili».
Certo, non tutti i giornalisti lavorano in modo rigoroso, nessuno lo nasconde. Ma anche quando il giornalista compie verifiche e rispetto delle regole, questo non basta per mettersi al riparo dall’azione di chi invece ha tutto l’interesse a tenere nascosti affari illeciti.
Gli strumenti sono le querele temerarie, ma anche le cause civili o – per rendere irraggiungibili i contenuti – «le richieste di rimozione o quelle che si basano sul diritto all’oblio “rafforzato” dalla Legge Cartabia, ma di recente abbiamo anche richieste di rimozione di contenuti che fanno riferimento a una interpretazione, solo italiana, del Gdpr», dice ancora Anesi.
«L’obiettivo resta evitare che tu torni a scrivere di chi ti querela. O ancora più di metterti in cattiva luce con l’editore» aggiunge Malagutti.
Sono contromosse che puntano a creare un danno economico ma che comportano anche l’impegno di molto tempo a giornalisti, redazioni e gruppi di lavoro, impegno tanto più pesante quanto più è piccola la realtà. «Mi chiedo se non serva un fondo nazionale che coinvolga tutti, anche l’Ordine dei Giornalisti, a cui attingere per difendersi dalle querele temerarie» aggiunge Sara Manisera, di FADA/Bertha Foundation, che ha curato importanti inchieste in Iraq e anche la lunga e approfondita inchiesta sull’esportazione di rifiuti dall’Italia alla Tunisia, che ha toccato anche criminalità e potere politico in Campania (la foto di apertura è di IrpiMedia, qui).
«Il tema vero è arrivare anche in Italia a una Legge sulle querele temerarie, come esistono in altri Paesi» continua Vittorio Malaguti. «In California in caso di querele temerarie viene sanzionato anche il legale che ha promosso la querela» aggiunge Riccardo Sorrentino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti Lombardia. «Quando l’ho detto a una parlamentare che è anche avvocato ha fatto un salto sulla sedia».
E proprio qui sta il punto: «Il problema è che la Legge dovrebbero elaborarla quelli che di solito sono protagonisti delle querele», dice Malagutti.
Fino a che non ci saranno contromisure, il potere potrà usare la leva giudiziaria (che non l’unica abbiamo detto) per intimidire chi cerca di portare alla luce fatti.
«È per cose – conclude Riccardo Saporiti, di festival Glocal – come queste che poi l’Italia finisce al 41esimo posto libertà di stampa, non perché “i giornalisti sono servi del potere”».
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