“L’Everest ci ha riempito gli occhi e il cuore”
Matteo Campi, 48 anni da compiere a dicembre, nato e cresciuto a Morosolo, racconta il viaggio che ha portato lui e altri 15 varesini e comaschi fino all'ultimo campo base prima della cima della montagna più alta del mondo, a 5550 metri di altitudine
Sono rientrati in Italia da pochi giorni, ma devono ancora smaltire il fuso orario e l’ebbrezza dell’altitudine, oltre alle mille emozioni incontrate nei 14 giorni di cammino in Nepal, fino all’ultimo campo base dell’Everest.
Ad organizzare il viaggio, che abbiamo raccontato a puntate in una sorta di “Diario Nepalese”, è stato Matteo Campi, 48 anni anni da compiere a dicembre, nato e cresciuto a Morosolo, artigiano della pietra come da tradizione del paese frazione di Casciago, una grande passione per la montagna da sempre, dall’arrampicata alla corsa, fino all’alpinismo. Padre di due figli, Arianna e Daniele, ha “contagiato” la moglie Francesca con la quale ama fare camminate insieme a due compagni di viaggio (Ivan e Veronica) come il Cammino di Santiago, la via Frangigena, il Cammino d’Oropa o la via Francisca del Lucomagno, conclusa pochi mesi fa e usata come allenamento per l’avventura in Nepal.
«Amo da sempre la montagna, il Rosa è la mia preferita, quella dove sono stato più spesso, quella che sento più “mia” – racconta Matteo -. Da sempre faccio arrampicata e ho fatto anche qualche trail negli ultimi otto anni, ma finita questa stagione ho detto basta con la corsa. In Nepal ero già stato nel 2016, sul circuito dell’Annapurna, poi nel 2020 sono stati sul Kilimangiaro: siamo tornati indietro una settimana prima delle chiusure a causa del Covid. Volevo tornare e vedere l’Everest, così ho riunito un po’ di amici, compagni di camminate, arrampicate, corsa e siamo partiti in 16, varesini e comaschi, guidati da Ngima Sherpa».
Ngima Sherpa in Italia fa il giardiniere, mentre in Nepal ha un’agenzia che organizza spedizioni – “Unlimited Sherpa Expeditions” – e anche un’associazione che si occupa di progetti solidali, Okhaldhunga Nine Hills Association.
«Abbiamo unito la passione con la solidarietà – spiega Matteo Campi -, cercando di aiutare per quanto ci è stato possibile portando vestiti e materiali utili per la popolazione locale. Abbiamo visto l’Everest dall’ultimo campo base, mi restano le immagini indelebili di paesaggi e montagne giganti, villaggi e persone fantastiche, spettacolari, semplici, che regalano sorrisi anche per piccole cose, un atteggiamento che qui abbiamo un po’ perso: anche se loro non hanno niente, non si tirano mai indietro». .
«Abbiamo percorso 130 chilometri in 14 giorni, con un dislivello dai 2600 ai 5550 metri dell’ultimo campo base prima della cima. Io non sono potuto salire l’ultima mattina, avevo la febbre alta e in montagna non si deve rischiare. Poi avevo visto l’Everest il giorno prima, diciamo che ero soddisfatto e avevo riempito gli occhi e il cuore – continua il capogruppo di questa spedizione di appassionati -. Ci tengo a ringraziare i miei compagni di viaggio innanzitutto. E poi i tre sherpa che ci hanno accompagnato, Ngima, Dawa e Sangee insieme agli 8 portatori, ragazzi stupenti, sempre con noi, sempre disponibili e capaci di risolvere ogni tipo di problema o intoppo. Il prossimo obiettivo? Adesso sto un po’ calmo, se no chi la sente mia moglie…Con lei vorremmo andare in Canada per i nostri 50 anni, in estate pensavo a Monte Bianco e Monviso. I miei sogni sono la Patagonia e l’Elbrus, la vetta più alta della catena del Caucaso e della Russia, la montagna più alta d’Europa. Spero di poterci arrivare un giorno».
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