Medici Senza Frontiere a Festival Glocal: “Responsabilità e correttezza per raccontare le guerre”
Maurizio Debanne, responsabile dell’Ufficio Stampa di Medici Senza Frontiere, parteciperà al panel "Il risvolto umanitario della guerra nel racconto giornalistico" venerdì 10 novembre dalle 14.30 alle 16.30 in Salone Estense
In un periodo nel quale purtroppo la parola guerra è tornata prepotentemente nel quotidiano, sui giornali, in televisione e su tutti i social network, a Glocal, il Festival del giornalismo digitale organizzato da VareseNews e giunto alla dodicesima edizione si parlerà del risvolto umanitario della guerra nel racconto giornalistico.
Venerdì 10 novembre dalle 14.30 alle 16.30 in Salone Estense dialogheranno sul tema Nicola Gini responsabile di redazione de Il Giornale di Olgiate, Nello Scavo, inviato speciale de L’Avvenire, Martina Toppi, giornalista de La Provincia di Como, moderati dal nostro Roberto Morandi. Con loro ci sarà anche Maurizio Debanne, responsabile dell’Ufficio Stampa di Medici Senza Frontiere. A lui abbiamo chiesto quali sono le parole chiave per raccontare gli scenari di guerra dal punto di vista di un’organizzazione non governativa ramificata come MSF, presente in 74 paesi del mondo e attiva negli scenari più complessi del pianeta, dall’Ucraina a Gaza passando dall’Africa: ogni giorno si prende cura di migliaia di persone in tutto il mondo colpite da conflitti, epidemie, catastrofi naturali o escluse dall’assistenza sanitaria con tre pilastri imprescindibili, cioè imparzialità, indipendenza, neutralità.
«Le Ong come noi sono sempre più coinvolte nel racconto dei conflitti, per un motivo fondamentale – spiega Debanne -: vengono usate come fonti primarie, per avere notizie di prima mano. In alcuni contesti le Ong sono le uniche fonti, in scenari dove non si può andare, come a Gaza oggi dove chi è dento è dentro, chi no non può entrare, o in posti lontani e poco “convenienti” dove non i giornali non mandano inviati e ci sono solo le Ong per diversi motivi. In Ucraina in alcuni momenti del conflitto i giornalisti erano più sul fronte rispetto alle Ong, e lì si è vista una sorta di risveglio del fare giornalismo, con contributi di rilievo, tantissimo materiale raccolto, storie dal fronte. Certo, spesso gli obiettivi tra le organizzazioni non governative e i giornali hanno obiettivi diversi, pur partendo dal presupposto che, almeno a noi di Medici Senza Frontiere, interessa raccontare la realtà. La testimonianza fa parte del nostro dna, ma per noi la cosa principale è la possibilità di accedere al paziente e dobbiamo agire in base a quello, mentre per un giornalista gli obiettivi e le esigenze sono altri, dare la notizia, capire cosa è successo. A volte si incrociano, altre volte non si incontrano. L’importante è mantenere alto il senso di responsabilità di entrambe le parti, chi è sul campo e racconta, chi non c’è e deve recepire il racconto e divulgarlo. L’informazione deve essere corretta».
Per spiegare il ruolo che Ong come Medici Senza Frontiere hanno, Debanne cita un esempio di qualche anno fa: «Era un Natale di anni fa, c’era stato un terremoto in Asia, in un paese dove eravamo come MSF: ci chiamò un’agenzia per capire come era la situazione, spiegammo che il nostro team era sopravvissuto e che avremmo tenuto informati dell’evoluzione delle cose – racconta – Poi ci richiamarono, perchè un’altra Ong che diceva di essere sul posto aveva detto che era stato lanciato un allerta tsunami, cosa che a noi non risultava nè potevamo verificare. Ho risposto che la nostra “M” sta per Medici, non per Meteo. Questo per spiegare che serve creare un rapporto professionale e costruttivo con i propri interlocutori, capire di cosa si sta parlando e con chi, verificare sempre le fonti e avere responsabilità».
«Raccontare la guerra non è facile, si raccontano spesso le guerre più vicine, quelle più “mainstream” come quella in Ucraina e quella in corso a Gaza, ma ce ne sono tantissime altre in giro per il mondo che fanno poco notizia – spiega ancora Debanne -. Penso al Sudan, dove ci sono centinaia di migliaia di profughi sparsi nei paesi limitrofi e di cui si parla a singhiozzo solo quando il governante di turno lancia allarmi immigrazione spesso non giustificati. Ogni guerra ha la sua storia, noi lavoriamo in 74 paesi del mondo, ci siamo, siamo lì, vediamo cosa succede e lo raccontiamo. Spesso essere gli occhi del mondo dà una responsabilità enorme, come sta succedendo a Gaza in questi tragici giorni: lì i giornalisti non possono arrivare e le notizie sono quelle che danno le organizzazioni che sono sul campo. Un’altra cosa fondamentale nel racconto dei conflitti è l’uso dei termini: noi pesiamo ogni singola parola che comunichiamo, ci sono termini e termini, la semplificazione ci fa arrabbiare. Anche qui serve avere un doppio senso di responsabilità, riconoscere il fatto che ci sono attori diversi e interessi diversi, ma che spesso incrociano gli stessi obiettivi».
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