Attacco a Venegono: quando l’AerMacchi finì nel conflitto arabo-israeliano

In una notte dell'autunno 1948 un attacco di sabotatori colpì la fabbrica di aerei, impegnata nella produzione di caccia per l'Egitto in guerra contro Israele. Un capitolo di una storia poco nota

aermacchi attentato

È quasi l’alba e al campo d’aviazione di Venegono risuona “un fragore di lamiere divelte e di vetri infranti”, da un hangar si levano “alte lingue di fuoco”, per un’ora si lotta contro le fiamme.

È la notte del 18 settembre 1948 e alla fabbrica dell’Aeronautica Macchi (oggi Leonardo) si registra uno dei più clamorosi attacchi portati in Italia dai sabotatori del neonato Stato d’Israele.

Da quattro mesi le forze con la stella di David bianco-azzurra stanno combattendo contro Egitto, regno hascemita di Giordania, Siria, Libano, Iraq e Yemen, i Paesi arabi che vogliono impedire il consolidarsi dello Stato ebraico nei territori che erano stati del “Mandato di Palestina” sotto controllo inglese. È la prima guerra arabo-israeliana.

Gli aerei della Macchi all’Egitto

Ma perché l’Aeronautica Macchi finisce nel mirino?
L’azienda italiana aveva accettato una commessa per fornire all’Egitto caccia MC-205 “Veltro”. Velivoli che erano modernissimi quando nacquero nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, ma che di fatto erano ancora validi nel 1948: se infatti già da tre anni nei cieli volavano i jet, in Medio Oriente si sfidavano due aeronautiche meno all’avanguardia.

(La foto di apertura ritrae un modello in scala di MC-205 egiziano realizzato da Andrew Garcia)

Con i loro cannoni da 20 mm e mitragliatrici leggere, con oltre 600 km/h di velocità massima, i caccia della Macchi erano ancora in grado di dar filo da torcere all’aeronautica israeliana, imperniata sui caccia Spitfire, P-51 Mustang e Avia S-199, più o meno pari.

Macchi MC-205 Egitto
Un MC-205 pronto per essere inviato in Egitto

L’Italia “campo di battaglia”, tra agenti segreti e sabotatori

Tra il 1945 e il 1948 l’Italia era un campo di battaglia – indiretto – tra due fazioni.
Da un lato il Mossad che inizialmente si muoveva per organizzare il trasferimento di ebrei europei – l’Aliyah – verso Israele, attraverso una serie di campi di raccolta semi-clandestini e una flotta di navi acquistate o ingaggiate allo scopo.

Dall’altra gli agenti segreti e i sabotatori del Regno Unito che volevano impedire l’emigrazione in Palestina e il consolidarsi di quel focolaio ebraico (“a national home for jewish people“) che pure Sua Maestà aveva prospettato al movimento sionista trent’anni prima, durante la Grande Guerra, con la celebre “Dichiarazione Balfour“.

Alcuni attacchi britannici danneggiarono le navi per migranti (i sospetti vennero abilmente deviati sugli arabi), mentre gli israeliani puntarono man mano anche a contrastare le forniture italiane di armi alle forze armate dei Paesi Arabi: uno scenario ricostruito dal giornalista Eric Salerno in un libro, “Mossad base Italia” che riporta anche interviste ad “operativi” israeliani che agirono in Italia, come ad esempio Yehuda Venezia, ebreo spagnolo arrivato a Roma per costituire l’ufficio dedicato ai sabotaggi.

«Gli italiani ci hanno aiutato moltissimo. Ci amavano. Anche perché, come noi, odiavano gli inglesi» dice nel libro Venezia. In una paradossale alleanza tattica, gli israeliani – nello specifico l’abile spia Ada Sereni, con il tramite del ministro Randolfo Pacciardi – avvicinarono anche reduci della Decima Mas della Repubblica sociale, epurati dall’Italia democratica e invece arruolati per preparare l’attacco alla flotta egiziana.

Dall’Adriatico a Venegono: gli attacchi per fermare le armi made in Italy

Gli interessi dell’industria italiana – che doveva riprendersi dopo le distruzioni della guerra e cercava nuove commesse – finirono però a metterla nel mirino degli agenti israeliani.
Così già ad aprile 1948 agenti del Mossad sabotarono e poi affondarono in rada, a Bari, una nave carica di armi cecoslovacche destinate alla Siria, che di lì a un mese avrebbe attaccato il neonato Stato ebraico.

E a questo punto torniamo alla notte del 18 settembre, al campo d’aviazione della Macchi a Venegono: sono le 4.45 quando il silenzio viene rotto “da una tremenda esplosione”, come racconta il Corriere della Sera.

“Gli uomini della stazione meteorologica e il guardiano che si trovava all’esterno, si prodigarono, passato il primo momento di sbigottimento, per domare l’incendio e soccorrere l’uomo rimasto nell’autorimessa. Questi era, per fortuna, uscito incolume dalla tremenda avventura e comparve poco dopo all’uscita dell’hangar. Intanto, mentre venivano chiamati i pompieri di Varese, che accorsero con due autopompe, il fuoco si estendeva attaccando anche quegli apparecchi custoditi nell’hangar che l’esplosione aveva lasciato intatti. Un’ora di lotta fu necessaria per estinguere le fiamme e qualcuno dei soccorritori rimase anche ustionato. Particolarmente difficile e pericolosa fu l’opera per sottrarre alle fiamme gli apparecchi che potevano essere salvati”.

Secondo il Corriere della Sera l’hangar colpito conteneva sette apparecchi, quattro caccia Macchi 205 e tre biposti da turismo Macchi-Bazzocchi 308:

Due dei caccia revisionati erano stati affidati dall’Aeronautica militare alla ditta costruttrice perché li rimettesse a nuovo. Gli altri due, fabbricati recentemente, facevano parte di un lotto di una ventina di aerei venduti dalla Macchi all’Aviazione egiziana. Uno dei caccia e i tre velivoli da turismo sono andati distrutti, gli altri hanno riportato guasti più o meno rilevanti. Il valore dei danni si fa ascendere a 110 milioni.

Proprio l’esame successivo dei velivoli salvatisi dal rogo consentì di appurare che sui caccia Mc-205 “era stata posizionata una carica di un chilogrammo circa di tritolo, rinserrata in una borsa di tela cerata con chiusura lampo”. L’innesco a tempo aveva funzionato in una sola delle bombe, mentre le altre tre non erano esplose, riducendo così i danni.

Aeronautica Macchi Venegono
L’aeroporto di Venegono negli anni Cinquanta (dal volume “Ali a Varese”)

I “soliti sospetti” e la pista israeliana

Le indagini – stando agli articoli di giornale – sembravano già orientate all’idea di un attacco di una qualche forza ebraica, anche se non si escludeva un sabotaggio di qualche formazione di sinistra, nel clima di contrapposizione frontale tra le forze di governo guidate dalla DC e “le sinistre”, vale a dire PCI e PSI.

Va notato che allora l’Unione Sovietica sosteneva la “partizione” della Palestina in due entità e riconosceva lo Stato ebraico. Non si oppose ad acquisti di armi per il nascente esercito con la Stella di Davide (per stare al mondo aeronautico: l’aviazione israeliana ricevette a inizio della guerra i caccia Avia S-199, prodotti nella Cecoslovacchia già sotto controllo sovietico).

Nonostante ciò, nel dubbio si puntò anche alla pista “di sinistra”, con il fermo di polizia di una decina di operai, tra cui due impiegati come guardie notturne, residenti a Cantello e Velate di Varese, che furono poi anche arrestate.
Ne dava notizia il giorno dopo sempre il Corriere della Sera, in un articolo che indicava anche l’arrivo dei periti dell’Aeronautica Militare intervenuti per le indagini, che puntavano anche a “stabilire la posizione dei velivoli” distrutti per l’esplosione delle cariche di tritolo e successivo incendio, per chiarire evidentemente quale fosse il bersaglio.

Macchi MC-205 Egitto
L’articolo del Corriere sulle indagini

Al di là dell’arresto degli operai – verrebbe da dire quasi un riflesso condizionato delle autorità di allora – la pista principale era citata in modo chiaro anche dal Corriere: “diversi indizi e circostanze fanno ritenere che l’impresa sia stata organizzata da qualche gruppo terroristico ebraico, per impedire l’invio dei caccia ad uno stato arabo, qual è l’Egitto”.

L’attacco all’aeroporto Venezia Lido

Il Corriere citava due “precedenti”.
Il primo, l’esplosione di un quadrimotore Siai Marchetti SM95 esploso in volo nel 1947 sul golfo di Terracina, con sedici morti tra cui la sorella del re d’Egitto Faruq (in realtà non è mai stata appurata la causa).

L’altro episodio è invece l’attacco sventato pochi mesi prima, il 16 agosto 1948, contro due grossi aerei costruiti in Italia e destinati a una società aerea egiziana, fermi all’aeroporto di Venezia Lido.

Alla vigilia della vista del principe Soliman, cugino di re Faruq d’Egitto, erano state scoperte ben cinque bombe. L’episodio è ricordato anche nel libro di Eric Salerno, che dà per buona la spiegazione da una fonte del Mossad, secondo cui il fallimento sarebbe stato frutto di un errore da parte di un agente daltonico che avrebbe confuso i liquidi degli inneschi.

Si può anche ipotizzare che quell’attentato fallito fosse un avvertimento, per fermare gli affari con i Paesi arabi.
In quell’estate 1948 sui giornali si era ipotizzata la mano dell’Irgun, la formazione terroristica ebraica più radicale che non aveva esitato a colpire duramente gli inglesi in Palestina, oltre agli arabi, e che in Italia aveva colpito l’ambasciata del Regno Unito: evidentemente non si sapeva ancora dell’esistenza della struttura del Mossad in Italia.

“Una catastrofe poté essere evitata allora, ma non ieri a Venegono”, ricordava ancora l’articolo del Corriere all’indomani dell’attacco alla Macchi. “L’ipotesi di un attentato ebraico appare perciò assai verosimile”.

I Macchi MC-205 nella guerra arabo-israeliana del 1948

Pochi giorni prima dell’attacco del settembre 1948, i primi MC-205 erano nel frattempo arrivati via nave in Egitto, seguiti poi dagli altri tra autunno ’48 e inizio ’49. Dipinti in grigio chiaro, vennero poi riverniciati con livrea mimetica “desertica”.

Macchi MC-205 Egitto
Il Macchi MC-205 numero 1213 sulla pista del campo di aviazione di El-Ballah, a cinquanta chilometri da Port Said, vicino al canale di Suez

Nel corso del primo conflitto arabo-israeliano gli egiziani persero tre MC-205, più un quarto danneggiato a terra. Tra le vittorie in combattimento, una fonte inglese riporta invece l’abbattimento di un P-51D Mustang israeliano.

Terminato il conflitto, la Macchi ricevette poi un secondo ordine di MC-205 e questa volta in Egitto (in contesto più tranquillo) si recò un team dell’azienda varesina, che secondo alcune fonti specializzate comprendeva anche Guido Carestiato, il più celebre dei collaudatori della Macchi, che era stato il primo a portare in volo il “Veltro”.

Aeronautica Macchi Venegono
Gli hangar della Macchi a Venegono, tra i velivoli anche un jet Vampire costruito su licenza della britannica De Havilland (dal volume “Ali a Varese”)

L’Italia in bilico tra due contendenti

L’MC-205 non fu l’unico aereo italiano fornito ai Paesi arabi: la Fiat consegnò diversi G55 (stessa generazione degli aerei Macchi) a Egitto e Siria, mentre il Libano ottenne quattro Siai Marchetti S.M.79, i cui relitti furono poi recuperati decenni dopo e riportati in Italia: uno è esposto al museo di Volandia, nell’allestimento del “fantasma del deserto”.

L’industria italiana comunque non disdegnava di fornire armi a tutti i belligeranti, come del resto fecero anche altri, ad esempio la Cecoslovacchia (aerei da caccia a Israele, fucili alla Siria). Gli emissari israeliani ad esempio acquistarono nell’aprile 1948 dal cantiere milanese Cabi sei “barchini esplosivi” MTM, del tipo già usato dalla Decima Mas della Regia Marina italiana nel corso della guerra.

Con quei mezzi – ricostruisce un altro capitolo del libro di Eric Salerno – i marinai israeliani affondarono al largo di Gaza la nave egiziana El Amir Farouq, carica di truppe: era il 22 ottobre 1948, poco più di un mese dopo l’attacco alla Aeronautica Macchi di Venegono.

L’Italia è passata poi ad una politica filoaraba nei decenni della Prima Repubblica, non senza qualche screzio con gli israeliani, di cui si è ipotizzata (ma mai provata) una vendetta, che coinvolse ancora una volta un aereo, a Venezia.

Nel quadro del successivo allineamento con Israele, anche in campo militare, in anni più recenti sempre a Venegono invece sono stati assemblati nuovi jet – i Leonardo MB-346 – destinati proprio all’aviazione dello Stato ebraico.

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 13 Dicembre 2023
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