Barre, il paese del Vermont dove si parla il dialetto degli scalpellini della Valceresio
Artigiani, artisti e operai partivano per l’America a cercar fortuna verso la fine dell’Ottocento forti della loro capacità di lavorare la pietra. A casa lasciavano mogli, figli, e la banda del paese che ancora oggi suona
Una birra in un pub del Vermont, il cameriere che arriva e chiede: «Ma vialter sì de Viggiù?».
La firma sotto alle grandi imprese d’America l’avevano messa ai tempi delle partenze, e poi degli arrivi, gli scalpellini della Valceresio. Ma il segno lasciato dai nostri artigiani più di un secolo fa l’hanno lasciato nel cuore e nella cultura dei posti dove si sacrificavano, dove a volte tornavano, spesso ammalati silicosi, la malattia dei minatori, di chi tagliava il granito al chiuso per via del freddo di quello stato del Nord, il Vermont appunto, che confina col Canada.
Lo sapevano gli abitanti di Brenno Useria, Arcisate, perché quei minatori avevano ai tempi fondato la banda del paese, il Corpo musicale che ancora oggi suona. Ma c’era da toccare con mano quello che gli avi avevano fatto oltreoceano. E allora Ambrogio Parnigoni, che oggi ha 62 anni e naturalmente suona il clarinetto, e della banda è stato Maestro, ha voluto approfondire le orme lasciate dalle migliaia di minatori che partivano dalla Valcersio negli ultimi decenni dell’Ottocento per lavorare la pietra. È lui, Parnigoni, che parlando in un bar con gli altri compagni della prima gita fatta in quelle terre si sentì porre quella strana domanda, in dialetto per giunta.
«Quel cameriere era di origini napoletane, e parlava il dialetto della nostra valle, imparato da chi stava lì. Il dialetto della valle lo parlavano le anziane di quei posti. Lo parlava il sindaco della città di Barre, che era di origini emiliane, luogo dove i nostri scalpellini, ma anche scultori e operai andavano per cercare di mettere a frutto quanto imparato nelle nostre cave». A Viggiù, Saltrio e Brenno è presente la pietra arenaria, a Brusimpiano il porfido, Cuasso al Monte granito, ad Arzo – che è già Canton Ticino – il marmo. Luoghi dove l’estrazione e la lavorazione di questi minerali era già testimoniata in epoca medievale, centro di materie prime, e di maestranze, che ne garantivano l’approvvigionamento per monumenti sacri e costruzioni anche in aree lontane e che corrispondevano coi luoghi di trasferta degli operai, i “Maestri Lapicidi’’ che si spingevano: sono per esempio presenti elementi in marmo d’Arzo nel Duomo di Milano e in quello di Como, così come in area germanica, sino a Varsavia.
Poi arrivò l’America. I bastimenti. E Barre, centro minerario, verso la fine degli anni 80 del diciannovesimo secolo arrivò la ferrovia. Ambrogio ha organizzato tre viaggi a Barre, negli anni Novanta. «Nel primo eravamo in cinque. Ma nei tour successivi forse la curiosità è aumentata e siamo arrivati ad imbarcarci in 91».
Una storia forte, fatta di ricordi di paese che si frammischiano anche ad immagini in bianco e nero, addirittura seppiate, consultabili negli archivi del Vermont Historical Society, il museo di storia dove on line si trovano le immagini dei nostri operai nelle baracche di legno, fra gli enormi blocchi di pietra da lavorare con gli strumenti del tempo (nella foto di apertura “Barre granite transportation via horse,” Digital Vermont: A Project of the Vermont Historical Society, accessed January 6, 2024, https://digitalvermont.org/items/show/4881). Un lavoro difficile, duro. Venne per questo eretto un “monumento allo scalpellino italiano“, nel cimitero cattolico di Barre (opera di Elia Corti, nativo di Viggiù, nella foto qui sopra realizzata nel corso dei viaggi degli anni Novanta in Vermont).
«Ai primi del 900, in quelle cave c’erano 9 mila lavoratori, di cui la maggior parte originarie della Valceresio che parlavano in valceresino. E non erano solo gli italiani. Ci hanno raccontato che anche canadesi e messicani, che lavoravano nelle cave, dovevano imparare il dialetto della nostra valle, divenuto la lingua franca di quei lavoratori».
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