La corsa per trovare Lidia, le coltellate, i processi: dopo 37 anni il caso Macchi è ancora aperto
Pochi giorni fa è scomparso uno dei ragazzi che nel gennaio del 1987 si mobilitò per le ricerche della giovane studentessa sparita nel nulla. Binda condannato e poi assolto definitivamente aspetta ancora l’indennizzo
Lidia Macchi senza giustizia, vittima di un mostro senza nome che ha distrutto la sua vita, e quella dei suoi famigliari; e a pensarci bene anche quella di un uomo che ha patito il carcere professandosi innocente, non creduto, condannato, e poi definitivamente assolto da ogni accusa.
Echi della nostra cronaca riportano al gennaio di 37 anni fa: da nemmeno un mese se n’è andato uno degli amici di Lidia, l’avvocato varesino, e milanese d’adozione, Mario Brusa. Era uno dei componenti di quelle «pattuglie civili» composte da una quarantina di ragazzi di Cl e dei gruppi scout frequentati da Lidia Macchi che si mobilitarono dopo la sparizione della ragazza che avvenne nella serata del 5 gennaio 1987. Una storia conosciuta a memoria anche da chi non è un esperto di cronaca poiché rimbomba ancora oggi nei racconti del paese, fra le mille ipotesi, nelle considerazioni le più strampalate nate da immaginazioni e suggestione, appendici delle piste investigative battute dagli inquirenti, quella “del balordo“, quella di “cl“.
L’unica verità emersa finora è quel luogo lenzuolo di fatti con un buco nero nel mezzo: cioè il nome che manca, per arrivare alla mano di chi l’ha uccisa con 29 coltellate quella la notte, la stessa in cui la ragazza consumò il suo primo rapporto sessuale. Oggi si parlerebbe di femminicidio, e la storia conquisterebbe subito le prime pagine del giornale. Ma erano altri tempi. Il Corriere della sera tratta il caso l’8 di gennaio con un richiamo di poche righe in prima pagina, (Varese: assassinata una studentessa, a pagina 7 – nella foto). Allora il fatto suonava come il probabile, terribile epilogo di una serata cominciata con una banale visita ad un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio e finita fra i confini del paesone della Valcuvia che ospita l’ospedale, e la vicina Caravate, in una collina conosciuta ai tempi come luogo per tossici e coppie in cerca di intimità, posto dove risuonavano sinistri i suoni del vicino cementificio con le sue luci gialle e un’atmosfera surreale ad illuminare la notte. Ma era solo l’inizio di uno dei più importanti casi di cronaca nera senza una soluzione, un caso ancora aperto. Gà quella sera, appunto il 5 gennaio, un lunedì, il padre di Lidia non vedendola rincasare aveva effettuato i primi giri in auto, le ricerche con la propria macchina lungo il tragitto percorso dalla figlia. Il 6 gennaio, alle 16.30 la decisione di sporgere denuncia in questura a Varese.
Il ritrovamento di Lidia avvenne però il giorno 7 per mano proprio di un gruppo di giovani che si era dato appuntamento nel piazzale del palazzetto di Varese, fra cui figurava Mario Brusa. La pattuglia di ragazzi ritrovò la Fiat Panda nei boschi non distanti dall’ospedale di Cittiglio intorno alle 11.30; poco distante il corpo della giovane senza vita, coperto da un cartone. Da qui cominciano indagini dapprima fittissime con decine di sommarie informazioni testimoniali raccolte che scandagliano il mondo della chiesa, delle frequentazioni giovanili, di “Comunione e liberazione“, con relative proteste della curia milanese, e ragazzi che si presentavano agli interrogatori con l’avvocato (anche se erano solo testimoni), l’iscrizione nel registro degli indagati di un parroco, il cui nome rimane in quei registri per lustri; e ancora: le prime prove del dna, senza esito, la sparizione per distruzione, molti anni dopo, dei vetrini contenenti il liquido seminale estratto dal corpo della vittima che avrebbe dato subito una connotazione genetica dell’assassino. Ma nulla di tutto questo riuscì a sbocciare in qualcosa di proficuo, neppure l’incriminazione del “killer delle mani mozzate” Giuseppe Piccolomo, escluso proprio per la prova del dna.
Il caso rimane dormiente fino a quando, trent’anni dopo l’omicidio, viene riaccesa una pista investigativa sulle basi della lettera inviata alla famiglia il giorno del funerale della ragazza, frasi vergate a mano: una testimone riconosce la grafia di quello che secondo gli inquirenti, senza ombra di dubbio, è il sigillo lascito dal mostro, che finisce questa volta sì, in prima pagina: Stefano Binda, amico di Lidia, studente di filosofia con problemi legati a dipendenze e attorno al quale – parole dei difensori – viene costruito «un cappotto di elementi che ne fanno il colpevole perfetto». Ma Binda colpevole non è. Semmai è la seconda vittima di questa storia, che però si sarebbe potuta salvare fuori da convincimenti accusatori suffragati da decisioni che hanno “pesato“ semplici indizi come prove di colpevolezza. Un errore giudiziario per il quale oggi un uomo sta ancora attendendo un indennizzo per l’ingiusta detenzione. Ma prima ancora c’è un’altra attesa a gravare sulle spalle di una famiglia che non ha ricevuto giustizia. E che da 37 anni sta ancora aspettando.
«In noi rimarrà per sempre la ferita di non aver trovato il colpevole»
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