Una vita dedicata ai bambini in ospedale: in 32 anni Emanuela ha contribuito a cambiare le pediatrie
La Presidente della Fondazione Il Ponte del Sorriso racconta la sua lunga battaglia per cambiare la cultura dell'accoglienza, i traguardi raggiunti, le sfide ancora aperte perché "un bambino non va trattato come un piccolo adulto"
La sua storia è iniziata da un’esperienza personale e si è trasformata in un impegno per cambiare l’accoglienza nei reparti pediatrici. Una passione immutata da 30 anni a questa parte, che l’ha portata a essere il volto di una rivoluzione prima culturale e poi strutturale.
Il prossimo 18 febbraio Emanuela Crivellaro taglierà il traguardo dei 32 anni di volontariato al fianco dei bambini ricoverati nelle pediatrie. Un cammino lungo e spesso ostico che ha percorso con grinta e determinazione raccogliendo il consenso di un territorio che l’ha eletta paladina dei diritti dei bambini in ospedale.
Emanuela Crivellaro, se si volta indietro, che cosa vede? Cosa le ha lasciato questa esperienza?
«Se dovessi tornare indietro, ricomincerei e rifarei tutto, senza nessuna esitazione. È stata, ed è ancora oggi, un’esperienza che mi ha dato moltissimo. Sono partita in un momento in cui il volontariato non era neanche normato dalla legge, era molto spontaneo. La cosa bella è che subito abbiamo avuto una grandissima adesione da parte di tante persone che si sono avvicinate alle problematiche che noi presentavamo. Così sono iniziate moltissime cose e tantissimi progetti.
Se mi guardo indietro posso dire che abbiamo contribuito a modificare il livello culturale generale. Quando abbiamo incominciato, venivamo guardati con sospetto. Le nostre osservazioni venivano percepite come inutili. Ma abbiamo anche incontrato primari illuminati: siamo entrati in punta dei piedi e abbiamo creato piano piano il primo gruppo di volontari. Quella è stata una svolta molto importante perché ci ha permesso una presenza costante 7 giorni su 7 all’interno dell’ospedale. Abbiamo aperto le sale giochi in tutte le pediatrie del Varesotto ( ad eccezione Gallarate). Solo a Tradate c’era un’esperienza di animazione con la capostipite di tutti gli animatori varesini: Augusta che è stata, credo, la prima educatrice a lavorare in ospedale. Il suo esempio, i suoi insegnamenti sono stati fondamentali. Oggi sembra tutto normale, scontato, ma è stato un percorso graduale. Un bambino ammalato non è un piccolo adulto e, quando arriva in un ospedale, va accolto come un bambino con la sua malattia, in un approccio a 360 gradi».
Dagli animatori agli educatori è stata una svolta decisiva
È l’altro aspetto importante. Siamo stati tra i primi a curare anche l’aspetto educativo dei bambini. Oltre alla scuola in ospedale, abbiamo garantito la presenza dell’educatore. In inglese si dice Childlife Specialist, che in italiano si traduce con educatrice in ospedale. Si occupa di tutta la vita del bambino in ospedale, insieme alla sua famiglia, pone attenzione al rischio trauma. È il sostegno per affrontare la malattia e la sofferenza del bambino ricoverato.
Oggi l’educatrice fa parte delle equipe insieme ai sanitari. Questo è proprio l’approccio che avevamo in mente, con attenzione alla sua vita interiore, per far sì che l’ospedalizzazione non diventi un momento negativo, ma che possa essere addirittura un’occasione di crescita e di apprendimento. E questo vale per tutti: la possibilità del trauma non è direttamente proporzionale alla malattia, anzi, è indipendente dalla gravità della malattia stessa.
La sua battaglia per un ospedale del bambino a Varese è stata molto combattuta
«Sì. Era importante anche ottenere una struttura che fosse a misura di bambino. Fin dai primi anni, la nostra idea è stata quella di creare un posto a misura di bambino. Se ne parlava tanto, ma poi, alla fine, queste strutture a misura di bambino non erano, e non sono, così diffuse.
Io avevo un’idea. Allora, mi sono informata ma in Italia era tutto molto affidato al caso. Non trovavo progetti veramente ben definiti per creare e realizzare un ospedale dove il bambino si potesse sentire sereno e rassicurato. Dal confronto politico, emerse l’ipotesi dell’ospedale Del Ponte che aveva già qualche specialità pediatrica anche se ne mancavano alcune importanti quali la la terapia intensiva pediatrica, la chirurgia pediatrica, la neuropsichiatria infantile. Oggi posso dire che impegnarsi per ottenere un ospedale pediatrico completo è stata una vittoria. Se andiamo a vedere la neuropsichiatria, e quanto siano in aumento i problemi correlati, capiamo quanto fosse indispensabile. La terapia intensiva pediatrica, quella che d’inverno è strapiena per le bronchioliti per problemi respiratori. E poi il pronto soccorso pediatrico e tutte specialità per cui abbiamo lottato e di cui c’è carenza in tutta Italia».
L’ospedale Del Ponte è stato fatto con fondi regionali e nazionali. Qual è stato il vostro contributo?
«Noi abbiamo fortemente voluto questo ospedale. Abbiamo fatto tante battaglie anche politiche e di promozione per avere un ospedale con le specialità pediatriche. Abbiamo pagato tutta la progettazione: dalla fattibilità, al preliminare alla progettazione definitiva. Abbiamo investito qualche milione di euro. Poi la politica va stimolata sempre e noi siamo stati lì, per tirare la giacchetta per chiedere che tutto arrivasse: il pronto soccorso, la neuropsichiatria infantile. Da ultimo la risonanza magnetica. Sembrava una battaglia persa, invece abbiamo raccolto 27.000 firme e la politica ci ha ascoltato».
Si è fatta portavoce di un territorio. Ma quando ha avuto la consapevolezza che lo stava davvero rappresentando?
«Quando sono partita, forse ero anche un po’ inconsapevole, cioè sono partita perché dentro di me ero certa che queste cose servissero. Poi ho cominciato a studiare, guardare ad altre realtà e ho maturato la certezza che quello che sentivo era davvero un bisogno concreto. E in questo cammino ho incontrato un territorio sempre più ampio, che mi ha incoraggiato. Il territorio ci ha dato una risposta di partecipazione inimmaginabile: arrivavano donazioni importanti, anche non richieste e poi supporto, adesione. Così capisci che sei sulla strada giusta e che la gente comprende e approva quello che stai proponendo».
Ha idea di quanto in questi anni avete raccolto e dato all’ospedale?
«Allora, comprese tutte le attività che abbiamo proposto, ci avviciniamo ai 10 milioni di euro. Sono compresi anche i lavori per ristrutturare La casa del sorriso anche perché anche non è una cosa da poco e ha contribuito allo sviluppo di tante specialità. Oggi arrivano tanti bambini al Del Ponte anche da molto lontano perchè sanno di avere un punto di appoggio concreto. Poi abbiamo fatto donazioni tecnologiche, apparecchiature.
Lo stesso impegno lo abbiamo messo anche nelle pediatrie di Cittiglio e a Tradate che verrà inaugurata a breve ed è stupenda. Abbiamo colorato gli spazi, progettato gli ambienti insieme all’Accademia di Brera, mettendo insieme la loro professionalità artistica con la nostra esperienza pedagogica. Ogni spazio va pensato per l’utilizzo che avrà: non c’è una formula unica. Occorre sentirlo, immaginarlo nella sua funzione, percepirlo nel rapporto con il bambino.
Sin dal primo momento in cui arrivai con mio figlio piccolo, 32 anni fa, ho pensato a uno spazio pieno di luce, di colore. Però, con gli anni mi sono documentata, ho seguito convegni e seminari di architettura. Ho letto moltissimo, libri specializzati. Quello che abbiamo fatto a Varese era un unicum. Non esisteva da nessun’altra parte in Italia».
Dopo 32 anni possiamo dire che lei ha vissuto una doppia carriera: da una parte quella lavorativa e dall’altra quella di volontaria. Un impegno che non sarà stato facile da gestire con la famiglia
«Sì, quando ho iniziato avevo i bimbi piccolini. Non è stata proprio una passeggiata e, soprattutto, non è stato un trampolino di lancio per arrivare chissà dove perché oggi sono ancora qui, tutti i giorni alla Casa del Sorriso. Appena finisco di lavorare arrivo e rimango fino alle 20, 20.30 perchè c’è sempre tanto da fare. E poi sono in prima linea. A fare i pacchetti al centro commerciale quando è Natale. No, non è stata proprio una passerella. Ma se l’ho potuto fare è soprattutto grazie alla mia famiglia, mio marito , i miei figli che hanno avuto una pazienza infinita, mia mamma che mi dava una mano nella cura dei bambini».
Ma dopo 32 anni come si mantiene lo stesso entusiasmo e, soprattutto, lo stesso ritmo nella gestione delle cose dai massimi sistemi al dettaglio?
«Ricevo tantissimo dalle persone che ho attorno. La squadra delle educatrici, i 250 volontari e poi i genitori che si affidano e ti coinvolgono. Credo che la mia forza rimarrà intatta finché ci sarà anche solo un bambino che deve andare in ospedale. Oggi la medicina hai fatto passi da gigante e le malattie pediatriche che portano al ricovero sono sempre meno. Ma ci sono. E a chi sta in una camera di ospedale non deve rimanere un ricordo negativo, nemmeno il giorno Natale. È così ingiusto essere in ospedale a Natale per un bambino: allora io mi chiedo, cosa posso fare per rendere ugualmente magica quella notte? Cosa posso fare in concreto? Ogni anno la nostra sala giochi si riempie di giochi, e di attività.
E cosa faccio quando un bambino sta molto male? Come posso aiutare i medici a curare meglio? E così si continua a chiedere fondi per donare nuove apparecchiature, sostenere medici e infermieri per far star meglio quel bambino…
Quando sei immersa in questa quotidianità, come puoi pensare “ Vabbè, dai, adesso basta”?. Ho già fatto abbastanza mi fermo tanto qualcun altro farà? Non ci riesco, perché questa ormai è e sarà la mia missione, fa parte del mio essere».
C’è stato qualche momento in cui si è sentita sola in questa tua battaglia?
«No, sola mai. Qualche volta mi è capitato di mandare a quel paese qualcuno, qualche politico, qualche testardo. Ma ho la fortuna di chiacchierare molto, butto fuori tutto. Distruggo le orecchie di chi mi è accanto ma così mi ricarico. Non mi sono mai fermata: quando ritengo che certi diritti siano da tutelare, non mi faccio da parte».
Una battaglia persa?
«Non me ne viene in mente nessuna. Sono testarda, so aspettare. Magari cerco vie alternative. Ma non mollo mai».
La prossima battaglia?
«Il terzo lotto. Ci sono i fondi ma i tempi sono lunghissimi. Ho pazienza ma rimango in attesa. Ho ottenuto la modifica delle finestre che sono state abbassate e ingrandite. Appena sarà il momento, noi ci occuperemo del colore».
Nella sua lunga carriera di volontaria hai vissuto anche emozioni molto forti. Come si fa gestire tutta questa emotività?
«L’emotività è tanta. Non sempre va tutto bene. Qui, alla Casa del Sorriso, per esempio, fai dei percorsi di vita insieme a queste persone che diventano parte di te, della tua famiglia. Credo di avere un dono che è quello dell’essere capace di elaborare le emozioni che vivo e di interiorizzarle in modo positivo. Si vivono anche situazioni molto tristi, sconvolgenti. In quel momento mi concentro solo sull’attimo, al fianco di chi è coinvolto. Dopo si rielabora ogni sensazione, ogni sentimento e si cerca di veicolare tutto verso atti di amore concreti. Certo, arrivare alla trasformazione della sofferenza in gesto di generosità richiede tempi ed elaborazione. Insieme ci prendiamo carico di questo pezzo per trasformarlo in progetto. È un processo che non può lasciarti indifferente. Dopo tanti anni, io so che questa evoluzione difficile e dolorosa porta benefici anche alla famiglia. Io so cosa avviene dopo e questo mi permette di sorreggere chi ho accanto».
Per arrivare a questa forza, però, ho anche io la mia squadra, che mi ascolta perchè io parlo molto e piango, e così butto fuori il dolore che ho dentro.
«La mia famiglia innanzitutto, mio marito, le pedagogiste, le educatrici del Ponte del Sorriso, i volontari. Siamo veramente un gruppo di lavoro fantastico, sono tutti bravissimi e ci confrontiamo. C’è anche un bellissimo rapporto con il personale sanitario dell’ospedale: i medici, gli infermieri. Ogni storia viene raccontata, vissuta, ricordata così da trasformarsi in forza per tenere sotto controllo l’emotività e cercare la via di fare del bene».
Dopo 32 anni è ancora pronta a farsi coinvolgere ed emozionare?
«Assolutamente sì, sì, sì, sì, non riescono a non farmi coinvolgere. Nella Casa del Sorriso si condivide molto e l’accoglienza si trasforma in sostegno, supporto. Non riesci a starne fuori. Anche se so che ci sarà sofferenza, che arriverà il dolore non posso evitare di mettermi a disposizione. Io sono fortunata, ho una bella famiglia: restituire quanto ho ricevuto a chi è in difficoltà credo sia doveroso. Non mi sostituisco a chi soffre ma so che un abbraccio può aiutare così come un sorriso o il semplice ascolto. Ho letto molti libri di psicologia infantile, ho studiato per essere all’altezza. Ma l’empatia non si impara, è una cosa che hai dentro: capire cosa ha bisogno l’altro, quando parlare, che cosa dire…»
Ma veramente la sua giornata è di 24 ore?
«Mi alzo alle 6 ogni mattina, poi vado a lavorare. Sono part time così, ora chi i miei figli sono grandi, quando finisco vengo direttamente alla Casa del Sorriso e non rincaso mai prima delle 20.30. Anche di sabato il ritmo è questo, anche se non vado al lavoro, e spesso di domenica. Poi ci sono momenti speciali come sotto natale, vadoal centro commerciale al banco della Fondazione per fare i pacchetti, e poi le feste. Dicono che sono bionica man io mi sento normalissima. In mezzo ai miei volontari faccio quello che fanno tutti».
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