Don Filippo Macchi: “La mia missione in Mozambico, finestra sul mondo per i parrocchiani”
Il sacerdote di Gemonio è tornato a Mirrote, dopo un periodo in Italia. "Per chi vive qui rappresento un'opportunità di crescita. Bello affrontare ogni giorno le sfide che si presentano davanti"
Dopo diverse settimane trascorse in Italia, tra la famiglia e gli impegni ai quattro angoli della Diocesi di Como a cui appartiene, don Filippo Macchi ha ripreso l’aereo che lo ha portato prima a Maputo, la capitale del Mozambico, e poi nel Nord dello stato africano, a Mirrote, dove è parroco e missionario all’interno della diocesi di Nacala.
Don Filippo, 43 anni, è originario di Gemonio e ha scelto di volare dall’altra parte del mondo prima dell’arrivo del covid: la pandemia ha rallentato ma non ha fermato la sua spinta missionaria che è ora in piena corsa. In Mozambico il sacerdote varesotto ha dovuto superare un momento di forte difficoltà locale, l’avanzata del terrorismo islamico culminata con l’assassinio di una religiosa italiana, suor Maria De Coppi, avvenuto a poche decine di chilometri.
Un pericolo che, per fortuna, è ora sfumato e anche per questo ci permette di parlare a 360 gradi della sua esperienza. Lo abbiamo incontrato durante il suo periodo trascorso a casa (foto in alto: don Filippo in chiesa a Gemonio) e ci siamo lasciati con una promessa: la pubblicazione dell’intervista nei giorni della Pasqua che Filippo ha voluto celebrare con i suoi attuali parrocchiani, a Mirrote.
Don Filippo, qual è la sua “dimensione” in Mozambico?
«Ho un compito: quello di fare il parroco in un posto molto diverso dalla nostra idea di paese e di parrocchia. Sono in un luogo molto esteso, con grandi distanze e con una rete di villaggi popolata quasi del tutto da contadini. Scuole e ospedali ci sono ma tante volte non funzionano, la zona è abitata almeno lungo le strade principali. Si vive in modo molto precario sia per la salute sia per l’istruzione e si muore spesso per malattie banali che in Europa sono sparite».
Come vivono gli abitanti di quell’area?
«L’agricoltura permette la sussistenza o poco più: con il raccolto di un anno si mangia e si guadagna qualche soldo per le spese immediate, per le emergenze e per un paio di viaggi in città all’anno (Nampula, 470mila abitanti, è quella più vicina ndr). Si coltivano miglio, riso, fagioli, arachidi, anacardi oltre alla manioca che “salva” dalla fame. Però c’è malnutrizione e in genere l’alimentazione è incompleta».
Cosa le piace della sua attività?
«Stimola molto la mia curiosità: ogni giorno c’è una novità da affrontare per interpretare una vita completamente diversa dalla mia e questo è affascinante. Vivo in una buona condizione: sto bene di salute e ho cibo a sufficienza ogni giorno, ho mezzi migliori della maggior parte della gente. Questo in parte è un dispiacere perché non riesco a condividere del tutto la vita delle persone, ma almeno non vivo con l’assillo della malattia. Detto questo, ammiro tanto la forza vitale della popolazione che ha una capacità enorme di rialzarsi dopo ogni batosta. Ci sono tanti bambini, grande ospitalità: ogni volta l’accoglienza è grande. E questo è meraviglioso».
La gente come percepisce un sacerdote arrivato da lontanissimo, dall’Italia?
«Io per loro sono una finestra aperta verso il mondo. Rappresento un mondo diverso da quello che conoscono ma anche una opportunità per i loro figli: economica, di sviluppo, di istruzione. Ecco: io vorrei aprire questa finestra sul “resto del mondo” in modo che capiscano di essere capaci di poter fare una vita migliore, di approfittare di ciò che la nostra tecnologia e il nostro sistema di istruzione possono dare anche a chi vive in Mozambico».
Essere una “finestra sul mondo” vale anche all’incontrario. Cosa si può fare da qui oltre che inviare aiuti economici?
«Per fortuna non abbiamo l’ossessione dei soldi, grazie alla Diocesi e all’aiuto di tanti amici che danno una mano. Il sostegno della preghiera e della vicinanza umana mi aiuta tanto. La speranza è di vedere persone che, grazie a me, possano entrare in contatto e conoscere questa realtà. Citando l’Italia poi, in quest’area c’è un forte investimento di ENI che ha piattaforme per l’estrazione del petrolio nel mare: la legge prevede opere di compensazione da parte degli investitori stranieri ma purtroppo la corruzione prosciuga i canali diretti alla popolazione. Qui comunque, con altri missionari, sono in atto progetti educativi finanziati da ENI. Curiosamente alcuni rapporti sono stati tenuti da un amico originario proprio di Gemonio che ora lavora per ENI: non siamo riusciti a vederci di persona ma magari lo faremo in futuro. Sarebbe un incontro incredibile a oltre 7mila chilometri da casa nostra».
Istruzione e sanità sono due parole ricorrenti nel nostro discorso. Qual è la situazione?
«Sono due comparti che n Mozambico esistono e ricevono buoni finanziamenti ma purtroppo sono anche condizionati da incompetenza e corruzione. Io sono sempre più convinto che l’Africa non abbia bisogno di maggiori risorse ma di un accompagnamento: di persone che si dedicano con generosità a chi ha bisogno. Non conta quanto si investe se una grande parte viene accaparrato e gestito da chi può, e poco arriva a chi ha necessità. L’investimento va accompagnato dall’educazione e da una mentalità diversa e credo che il Vangelo possa essere un motore di sviluppo».
In che modo?
«Una persona che incontra Gesù può effettuare miglioramenti nella propria vita, rispettando la propria cultura ma – nello stesso tempo – cambiandola un po’. Io dico loro che in Gesù possono fare un salto di qualità: hanno un profondo senso religioso, pregano, ma spesso faticano a fare scelte, che sono difficili ma possibili. Mi riferisco all’istruzione per i figli, al rispetto per le donne, all’attenzione verso le malattie. C’è molto fatalismo e invece i problemi si possono risolvere o contenere. E il Vangelo traccia proprio quella strada».
La domenica delle Palme a Mirrote, primo “impegno” di don Filippo al ritorno nella sua parrocchiaIl suo parroco a Gemonio, don Mario Zappella, che è stato a sua volta missionario, durante la messa dice spesso che oggi “la missione è qui”. Cosa ne pensa?
«La missione è dovunque: non bisogna fare classifiche perché ogni posto ha in sé le proprie difficoltà e ma anche le possibilità positive. Mi dà fiducia quando vedo che c’è sintonia, consapevoli che siamo sulla stessa barca. Ognuno ha il suo compito ma siamo legati».
Si è dato un orizzonte temporale per questa esperienza?
«No, non voglio darmi un obiettivo in questo senso. Il mio impegno ha una scadenza e prima o poi tornerò a casa con la speranza che altri possano continuare dopo di me ma per adesso non faccio grandi programmi. Comunque c’è una regola: la diocesi di Como manda “in prestito” a una chiesa sorella un sacerdote per tre anni, rinnovabili fino a un massimo di nove. La norma non è così restrittiva ma esiste. Intanto stiamo allargando il nostro impegno: a giugno mi raggiungerà un altro italiano, don Angelo, ma arriverà il momento in cui consegneremo la parrocchia alla diocesi locale. Perché il clero “indigeno” sta crescendo».
Concludiamo con un accenno a quel terrorismo che vi ha sfiorato un anno e mezzo fa.
«Per almeno due mesi abbiamo avuto paura che accadesse anche a noi quello che è successo nella missione di Chipene a 100 chilometri di distanza (l’attacco armato e l’omicidio di suor Maria ndr). Ci siamo chiesti se fosse giusto tornare a casa o almeno trasferirci in città dove la sicurezza era garantita però abbiamo tenuto duro: ha avuto la meglio il desiderio di stare accanto alla gente e poi la cosa si è risolta. Ora la situazione è sotto controllo grazie all’intervento dell’esercito e di un’azione internazionale che ha confinato i terroristi nell’area da cui erano partiti. Ma è stato un momento di vero pericolo».
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