Ragazze con il velo, attiviste ebree ed Lgbtq: dentro all’accampamento pro Palestina all’università di Amsterdam
Michela Grasso, studentessa di Gallarate nei Paesi Bassi e divulgatrice con l'account Spaghettipolitics, racconta l'esperienza multiforme dell'occupazione al campus di Roeterseiland
Michela Grasso, studentessa originaria di Gallarate, è anche una divulgatrice con l’account Spaghettipolitics: dal 2018 studia ad Amsterdam (oggi frequenta un master in urban and regional planning) e racconta l’esperienza dell’accampamento pro-Palestina nel campus universitario. Una mobilitazione che unisce molte voci diverse. Riceviamo e pubblichiamo
Lunedì 6 maggio, nelle stesse ore in cui l’esercito israeliano si preparava ad invadere Rafah, la città a sud di Gaza dove hanno trovato rifugio 1.5 milioni di Palestinesi dall’inizio dei bombardamenti, alcuni studenti dell’università di Amsterdam (UVA) armati di picchetti e tiranti si accampavano nel campus di Roeterseiland.
In un triangolo di prato, circondato per due lati da acqua e per un lato da vecchi edifici, venivano issate barricate con pallet, vecchie ante di armadi trovate in discarica, sedie e qualsiasi oggetto solido capace di sostenere un potenziale assalto delle forze dell’ordine.
Un solo messaggio, staremo qui finchè non accetterete le nostre richieste: 1) divulgare tutte le collaborazioni tra l’Università di Amsterdam e le istituzioni Israeliane, 2) boicottare tutte le collaborazioni accademiche con istituzioni israeliane partecipi al genocidio di Gaza, come è stato fatto con le istituzioni Russe un anno fa, 3) Chiudere tutti i contratti con compagnie israeliane e compagnie internazionali che guadagnano dall’occupazione di Gaza e della Cisgiordania.
E sotto lo slogan, urlato e cantato, “Disclose, divest, we will not stop, we will not rest!”, il piccolo triangolo di prato si è riempito velocemente di tende, studenti, giornalisti e curiosi del vicinato.
Non è la prima protesta a favore della Palestina, e sicuramente non sarà l’ultima, ma segna un momento spartiacque tra tutto quello che è stato fatto prima e tutto quello che sarà fatto dopo.
“Biblioteca Refaat Alareer, per un insegnamento libero, per una Palestina libera” cita un cartello sopra una telo pieno di libri. La biblioteca è dedicata al poeta palestinese ucciso da un bombardamento israeliano a Dicembre 2023, poco prima dell’omicidio aveva scritto la poesia “Se devo morire”. “Orientalismo” di Edward Said, “Sull’Anarchismo” di Noam Chomsky, “Lo stato e la rivoluzione” di Lenin, sono solo alcuni dei titoli presenti in questa biblioteca improvvisata che durante il giorno crescerà spropositatamente.
Il programma della giornata viene distribuito su dei volantini:
Ore 15: workshop sull’occupazione insieme agli ex-studenti che nel 2015 hanno occupato la Maagdenhuis (un altro edificio universitario)
Ore 16: sessione di pittura striscioni
17: Workshop di Erev Rav (un collettivo olandese di ebrei anti sionisti)
18: protesta dei professori in favore degli studenti
Voci molto diverse
L’accampamento, iniziato alle 12, piano piano cresce di dimensione; iniziano ad arrivare i professori e lo staff dell’universitá, gli studenti si riversano nel prato a fine lezione e qualcuno viene addirittura a controllare l’accampamento con una tavola da paddle, “remando” sui canali.
La folla è diversa, e rappresenta a pieno la moltitudine di persone che compongono l’università di Amsterdam. Ci sono studentesse musulmane con l’hijab, studenti usciti da qualche classe di business e facilmente riconoscibili grazie ai loro outfit curati, studentə LGBTQ+ con vestiti variopinti, c’è persino un prete con il suo colletto ecclesiastico bianco. Difficilmente qualcuno parlerà sui media della mescolanza di visioni e identità di questo accampamento; farlo, vorrebbe dire negare anni di narrazioni distorte sulla chiusura ermetica di ciascuno di questi gruppi, vorrebbe dire riconoscere che la società per cui combattono questi studenti è una società di unione e fratellanza.
Sul prato, seduti fianco a fianco, gli studenti e le studentesse dipingono striscioni, c’è chi scrive “Palestina Libera”, chi disegna un ramo di ulivo e chi si perde a chiacchierare o a sfogliare tra le pagine della biblioteca liberata.
Alle 18 iniziano a parlare i professori e gli studenti di dottorato. Tra loro spunta Omar Barghouti, dottorando e co-fondatore del famosissimo movimento BDS (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni). È un uomo di 60 anni che ricorda commosso gli anni ‘80, quando studiando alla Columbia University di New York, ha partecipato alle occupazioni contro l’Apartheid in Sud-Africa, che proprio come oggi erano state violentemente sgomberate, e proprio come oggi sembravano puntare a obiettivi impossibili.
Poi è il turno di un gruppo di attiviste ebree, “Sono qui in nome di mia nonna, sopravvissuta ad Auschwitz” racconta la loro portavoce tra gli applausi, portando supporto agli studenti. E infine si passa a uno studente palestinese, che conclude il momento dei discorsi con una sua poesia.
Dal megafono qualcuno parla di cena, e nel campo si volatilizzano dei volontari che portano enormi pentole piene di zuppa, offerta gratuitamente a chiunque ne voglia. E con l’arrivo della sera, aumentano le persone, aumentano i canti e il loro volume, e aumentano le facce curiose di chi, tornato dal lavoro, si affaccia alle finestre di casa dall’altro lato del canale. Un anziano allunga le braccia oltre la barricata, nelle mani ha un cartone di Chocomel (famoso brand di latte al cioccolato olandese) e una scatola di biscotti; sarà poco, ma viene accolto con gioia da chi pensa di accamparsi per vari giorni e ha bisogno di qualsiasi provvista.
I contro-manifestanti e lo sgombero notturno al campus di Roeterseiland
Improvvisamente una striscia vermiglia attraversa l’aria e segna l’inizio di un momento di caos, due contro-manifestanti sono riusciti a entrare e tirano fumogeni tra la folla e tra le tende, cercando di bruciarle e creare scompiglio. Sono velocemente buttati fuori, ma ormai la tensione inizia a serpeggiare e sempre più poliziotti si aggirano sui gommoni nel canale adiacente.
Gli studenti, all’accampamento, hanno avuto la possibilità di dividersi tra “alto rischio” e “basso rischio”. Chi è a basso rischio, e quindi non vuole essere arrestato, viene fatto uscire poco dopo; quando la polizia inizia a minacciare di sgomberare il campo. Gli altri, partecipano a una sessione dove gli viene spiegato per filo e per segno tutto quello che potrebbe succede, i rischi che correranno; e presto il campo è pieno di persone con le braccia coperte da varie scritte; sono i numeri di telefono e i nomi degli avvocati che hanno dato la loro disponibilitá ad aiutare chi verrà arrestato.
Il racconto si interrompe qui, prima dell’entrata violenta con bulldozer e cani della polizia alle 3 di notte, prima dell’arresto di 150 studenti e membri dello staff universitario. Perché il ricordo di una giornata dedicata a una forma di apprendimento diverso non deve essere macchiato dalla violenza, ma può esistere cristallizzato in un momento che per tanti studenti ha significato avvicinarsi per la prima volta a un momento di politica vera.
In un triangolo di terra che come una penisola si allunga nell’acqua, per meno di 24 ore è esista una visione di società diversa. La stessa che tanti studenti hanno letto nei libri universitari, scritti da autori che nel 19esimo secolo ancora riuscivano a immaginare futuri ipotetici e di speranza.
Uno spazio dove studenti di qualsiasi provenienza e credo hanno vissuto fianco a fianco,
Dove girandoti vedevi a costruire una barricata un ragazzo con la Keffiyeh insieme a una ragazza ebrea rasata a zero con la maglietta “Jews for ceasefire” (Ebrei per il cessate il fuoco). E qualche metro più in là una ragazza transgender, sdraiata a prendere il sole, mentre dei ragazzi palestinesi ballavano allegramente la Dabke, una danza popolare levantina dove si battono i piedi per terra con forza.
Gli studenti, come negli anni 80 contro l’Apartheid in Sud Africa, e come negli anni 60 contro l’invasione del Vietnam, hanno scelto nuovamente dove posizionarsi. Solo la storia potrà giudicare a posteriori, decidendo se le foto delle barricate finiranno sul sito dell’università di Amsterdam, proprio come quelle delle rivolte del ‘68, ricordate con orgoglio a 50 anni di distanza.
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