Sergio Domenichini e la “fretta di avere i soldi”: per questo uccise Carmela Fabozzi a Malnate
Le motivazioni della sentenza che inchiodano l’imputato all’ergastolo. Un omicidio consumato per motivi abbietti: “L’assassino ha agito per mille euro che gli servivano per andare al mare”

Quaranta chili per un metro e 48 di altezza. Uno scricciolo di donna di 73 anni affrontata senza timore da un uomo in forza, grande e grosso, più alto di lei, colpita con violenza, lanciata a terra e spostata per un braccio e finita con un vaso in vetro dal basamento solido mentre l’anziana era supina col capo che stava contro il pavimento. Poi il buio.
Non sono particolari fini a se stessi che dipingono una tragedia già vissuta da chi ha seguito la corte d’Assise per l’omicidio volontario pluriaggravato di Carmela Fabozzi, la donna di 73 anni uccisa quasi due anni fa nella sua abitazione del centro storico di Malnate secondo l’accusa da Sergio Domenichini 66 anni, nullafacente. Piuttosto si tratta di ricostruzioni dolorose, specialmente per i parenti che hanno seguito il processo, ma utili per analizzare come hanno deciso i giudici. Perché per esempio l’aggravante della minorata difesa sta proprio in questo, nella sproporzione fisica prima menzionata, ma anche nel fatto che la donna fosse in casa sola al momento dell’aggressione, senza nessuno che potesse aiutarla.
La crudeltà, altra aggravante contestata, non è stata considerata sussistente dai giudici. «L’aggravante in questione richiede che le modalità della condotta rendano evidente la volontà di infliggere alla vittima sofferenze che trascendono il normale processo di causazione dell’evento e costituiscono un elemento aggiuntivo , un quid pluris rispetto all’attività necessaria ai fini della consumazione del reato»: in questo caso la pluralità dei colpi inflitti non è indicativa della volontà di infliggere sofferenze aggiuntive a quelle causate dalla produzione dell’evento.
La tesi della terza aggravante che condanna al fine pena mai Domenichini è quella dei futili motivi, letti non nella sproporzione dell’agire secondo l’intenzione, ma nella futilità letterale dell’azione, nel fatto che l’imputato al momento del delitto avesse bisogno di soldi, «aveva fretta» di monetizzare i gioielli strappati di dosso alla donna, che non si toglieva mai, e di venderli per avere il cash e andare così in vacanza, soldi subito, non importa se mancavano 300 euro di quei 1300 che risultavano dalla valutazione complessiva delle catene e dei monili della donna: era disposto a rinunciare a più di un quarto dell’intero valore dei preziosi pur di arrivare al dunque cioè partire.
Cioè, «pura brama di danaro». Motivazioni che nelle decine di pagine stese dal presidente dell’Assise di Varese (e del Tribunale) Cesare Tacconi ripercorrono il fatto, le posizioni delle parti civili (Andrea Boni e Rachele Bianchi rispettivamente per il figlio e la nipote della vittima) e dell’avvocato difensore Francesca Cerri.
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