Dal Verbano al ristorante stellato: Andrea Besana e Pier Paolo Soffiantini nella cucina di chef Sadler
I due giovani cuochi, chef resident di Laveno e sous chef di Taino, fanno squadra nel ristorante da una stella michelin. "Facciamo scoprire i piatti poveri della cucina locale in versione gourmet. Nel menù della "piccola pasticceria" c'è il brutto e buono"
C’è anche un po’ di lago e di Varesotto al Gusto by Sadler, ristorante da una stella michelin del nord della Sardegna.
Nella cucina dello chef lombardo, insignito con l’Ambrogino d’Oro nel 2018, non mancano piatti prelibati inseriti in un menù di qualità, pensato per riproporre con una nuova veste gourmet la cucina tradizionale sarda. Ai fornelli, per dare vita alle pietanze, ci sono Andrea Besana, resident chef del ristorante da tre anni, e Pier Paolo Soffiantini, sous chef. In comune i due, oltre alla passione per la cucina e le postazioni di lavoro, condividono anche la terra di provenienza, un territorio sempre legato all’acqua, non quella salata dell’isola di nuraghi, bensì quella dolce dei laghi varesini, in particolare del Lago Maggiore.
I due cuochi sono entrambi giovani: Andrea ha 27 anni, è di Laveno e ha iniziato gli studi a Gallarate, mentre Pier Paolo ne ha 25, è di Taino e da studente prendeva ogni giorno il battello sul Verbano per imparare cucina ad Arona. Nonostante alcuni amici e conoscenze in comune, Andrea e Pier Paolo non si erano mai incontrati prima dell’esperienza in Sardegna, dove da un anno fanno squadra dopo aver girato per il mondo, dalla Francia all’Arabia Saudita, passando per Londra e infine la Costa Smeralda.
Il Gusto by Sadler si rivolge a un livello di clientela medio-alto, fa parte di un resort a cinque stelle lusso. Sotto la guida di chef Sadler, le ricette tipiche della terra sarda vengono rivisitate anche grazie al grande anche bagaglio di esperienze fatte da Andrea e Pier Paolo. «Anche se veniamo entrambi dalla provincia di Varese ci siamo conosciuti solo un anno fa qui al ristorante – spiegano -. Siamo entrati subito in sintonia. Il nostro obiettivo è quello di mantenere la stella michelin tutti gli anni e fare sempre meglio nella proposta dei menù con prodotti di locali, qualità e sempre freschi».
Come spiegato dai due cuochi, lo studio di un menù di alta cucina non deve impedire, anzi al contrario, di discostarsi dalla ricerca del prodotto del territorio, in particolare quello del cosiddetto “piatto povero“. «In cucina il nostro intento è dare valore a piatti come la cordula o il filindeu. Questi sono esempi di piatti poveri che noi trasformiamo e rendiamo più accessibili: la cordula, per esempio, è l’intestino dell’agnello. Per alcune persone può essere difficile approcciarsi a tavola un piatto simile, noi vogliamo renderlo più facile».
«Siamo contenti: riceviamo responsi positivi, sono piatti che piacciono molto – sottolineano -. Questo significa aver lavorato bene al menù e avere una solida squadra alle spalle. È bello avere sufficiente esperienza, fatta anche all’estero, per portare qualcosa di nuovo in luoghi lontani delle metropoli. E, viceversa, è bello scoprire prodotti, che potremmo definire anche “di nicchia”, che nelle grandi città non si trovano. La “ricerca” della tradizione avviene durante l’estate quando si è più a contatto con il territorio, mentre i piatti da inserire nel menù vengono studiati in inverno al ristorante di chef Sadler a Milano».
«Cosa significa lavorare e imparare da un grande cuoco come Sadler? – chiediamo -. La mano dello chef è forte e si fa sentire. Nei giorni in cui il menù viene studiato, solitamente circa tre mesi prima della stagione, Sadler prova i piatti, dà l’indirizzo sia per quanto riguarda il gusto e la presentazione, soprattutto dà consigli preziosi da cui si impara sempre tanto. La sua conoscenza della cucina milanese, italiana ed europea è davvero avanzata. I piatti che presenta sono ancora molto innovativi: è un maestro dell’innovazione e della tradizione. Anche se è molto esigente, ci ha insegnato a lavorare ogni giorno cercando di ottenere sempre il meglio, andiamo in cucina con entusiasmo e con la voglia di trasmetterlo. Per noi è una grande opportunità, non è scontato che un grande chef riponga fiducia e premi i giovani».
«C’è qualcosa del Varesotto che è rimasto nella vostra cucina? – domandiamo prima che inizi la fase preparatorio del loro turno -. È sempre bello portarsi dietro la “cucina di casa” quando si viaggia per lavoro. Non c’è cosa più bella che far conoscere la nostra cucina in tutto il mondo, ma anche alcune tecniche di cottura e metodi di lavorazione del prodotto. Nella “piccola pasticceria” l’ultimo boccone che diamo è il brutto e buono, un piccolo (e dolce, ndr) ricordo di casa».
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