La riflessione di Alberto Pellai sulla strage famigliare di Paderno Dugnano

"Nessuno di noi può sapere che cosa è scattato nella mente del 17enne che ha compiuto l’efferata strage familiare che ci ha lasciato tutti atterriti"

Alberto Pellai

Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, ha scritto una lunga riflessione sui fatti avvenuti a Paderno Dugnano, dove un ragazzo di 17 anni ha ucciso la propria famiglia. Il dottore si chiede: “Perché è successo? Dalla paura al coraggio”.

Nessuno di noi può sapere che cosa è scattato nella mente del 17enne che ha compiuto l’efferata strage familiare che ci ha lasciato tutti atterriti. Certo è che in questi giorni ci siamo trovati a parlare più volte di casi di cronaca in cui una violenza inaudita è stata compiuta senza alcuna consapevolezza reale della gravità che quel “gesto assassino” porta non solo nella vita di chi viene ucciso, ma anche nella vita di chi uccide. Le poche parole dell’adolescente reo confesso, rese disponibili dai media nazionali, ci fanno intuire che quel ragazzo si sentiva estraneo, dislocato e sconnesso sia rispetto al mondo intorno a sé sia nei confronti di se stesso.

Capita in adolescenza di soffrire di intensi stati di disagio emotivo, in cui si prova dolore e sofferenza, senza però sapere che cosa li generi e come fare ad attraversarli e affrontarli. Questo è ciò che il 17enne di Paderno Dugnano diceva di provare da giorni. Come questo vissuto di depersonalizzazione e derealizzazione possa portare ad uccidere con un coltello tutta la propria famiglia saranno la magistratura, gli specialisti e forse il tempo a dircelo. Io percepisco la dimensione del vuoto interiore in questi eventi così tragici, che coinvolgono adolescenti che uccidono senza sapere perché. Mi colpisce il fatto che il ragazzo abbia dichiarato che un minuto dopo aver compiuto la strage, si sia reso conto che ciò che aveva fatto non risolveva il suo dolore e rappresentava qualcosa di irreparabile. C’è in tutto questo una lontananza siderale dal principio di realtà e un’incapacità enorme di dotarsi di una responsabilità – rispetto ai propri agiti e alle proprie scelte – che alle soglie dei 18 anni dovrebbe essere ben formata e strutturata. Invece ci troviamo di fronte a “quasi adulti” che trattano la vita propria e degli altri come un bene di poco valore, come se avessero a che fare con bambolotti o pupazzi di pezza. Che non sembrano aver sviluppato il concetto di bene e di male e quindi non lo usano come filtro da interporre tra ciò che pensano e ciò che fanno. C’è una totale diseducazione a guardarsi dentro e a leggersi dentro.

Quasi tutti in adolescenza abbiamo sperimentato disagio, fatica e dolore. Per venire fuori da certe sabbie mobili emotive, abbiamo dovuto comprenderle, condividere il nostro disagio parlando con amici e/o adulti di riferimento. Lo abbiamo dovuto affrontare e tollerare sapendo che la vita spesso ci obbliga a camminare in salita, a fare fatica e non sempre ci dà – in modo immediato e magico – il rimedio che ci serve per stare meglio. In questo società del tutto e subito, sentire dolore e disagio interiore senza sapere come dirlo, a chi dirlo e cosa farne è un fenomeno frequente soprattutto nei maschi che vivono una crescita in cui essi stessi fanno milioni di cose, ma parlano pochissimo del dolore che vivono ed elaborano ancora meno il significato che accompagna i loro stati emotivi disagevoli. Tra l’altro i giovani maschi crescono immersi in una cultura che chiede loro di immergersi nella violenza e nella potenza, considerati valori molto più importanti – se sei nato maschio – della competenza. Devi essere un “vero uomo”: ancora oggi è un mantra che inibisce e cancella il diritto/dovere che ciascuno ha di essere un uomo vero. Così, crescere maschi, vuol dire confrontarsi più spesso con supereroi che sparano e uccidono, piuttosto che con uomini adulti che salvano vite o si prendono cura del dolore di chi vive al proprio fianco.

Diventi campione di un videogioco quante più persone uccidi, vai al cinema a vedere storie impregnate di azioni violente e canti canzoni in cui sballo e prepotenza, sbruffonaggine e criminalità sono identificate come valori identitari. Mi guardo bene dal dire che siano queste le ragioni del massacro di Paderno Dugnano. So bene che non lo sono. Ma se il dolore degli uomini è inteso sempre e solo come qualcosa che va nascosto e che rende fragili, se chiedere aiuto è considerato fragilizzante e “roba da femmine”, che cosa resta nell’esperienza e dell’esperienza del dolore a chi nasce e cresce maschio? Solo il bisogno di nasconderlo, di fingere di non sentirlo e se arriva, di lasciarsene travolgere nel silenzio di tutti per poi trasformarlo in gesti caotici pieni di potenza distruttiva. In tutti noi genitori, oggi c’è sgomento e dolore. Continuo a ricevere messaggi di madri e padri che vorrebbero essere rassicurati, che chiedono parole che ci facciano sentire dalla parte giusta, in un territorio della vita in cui garantirsi la certezza che a noi queste cose non capiteranno mai. Io non posso dare a nessuno questa certezza. Tanto meno la posso dare a me, che sono padre di quattro figli. Però invito tutte le mamme e i papà a non lasciarsi sopraffare dal senso di impotenza e di paura. Continuiamo ad essere presenti sulla scena della vita dei nostri figli, senza invaderla. Continuiamo a farli stare nella vita reale, in modo tale che escano nel mondo e continuino a desiderare di esplorarne la bellezza e quell’ignoto della cui esplorazione non puoi fare a meno quando sei adolescente. Aiutiamoli a fare rete perché possano incontrarsi con persone vere e reali, dentro comunità e non dentro a community virtuali dove si socializza e si videogioca senza avere mai nessuno in carne e ossa davanti a sé o al proprio fianco.

Costruiamo scuole e luoghi di aggregazione dove imparino a parlare, a dire, a sperimentare la bellezza e la fatica, la gioia e la tristezza che la vita reale reca con sé. Continuiamo a parlare tra noi adulti di ciò che davvero conta nella vita, che non è garantire benessere e protezione fisica ai nostri figli. Certo questi due elementi sono molto importanti. Ma ciò che serve di più è che i nostri figli ci vedano desiderosi della loro autonomia, capaci di spingerli là dove il terreno della vita è sconnesso e aspro, non impauriti dalle loro cadute e dalle sbucciature dei loro cuori e delle loro ginocchia. In questo momento dove tutti siamo pieni di paura, i nostri figli hanno bisogno di una sola cosa: di adulti coraggiosi che sappiano testimoniare che anche dentro il dolore ciò che conta davvero è tenere alto lo sguardo verso il cielo. E verso lo sguardo di tutti gli altri intorno a noi.

Se pensate che queste parole, oggi possano essere di aiuto per altri genitori, condividetele.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 02 Settembre 2024
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