Nell’adolescenza il segreto della sofferenza può produrre mostri
Il disagio adolescenziale si manifesta con sintomi nuovi. Gli psicoterapeuti Marta Zighetti e Matteo Selvini spiegano l'evoluzione di questo fenomeno e l'importanza di far emergere il non detto tra figli e genitori
Una riflessione sul “Disagio e la sofferenza degli adolescenti” è il tema scelto per ricordare i trent’anni di attività della Scuola di psicoterapia “Mara Selvini Palazzoli”, una pioniera della terapia familiare. Sabato 14 settembre a partire dalle ore 9 al Centro congressi Fast di Milano, Stefano Cirillo, psicoterapeuta tra i fondatori della scuola, aprirà i lavori presentando un caso agli specializzandi. A partire dalle 11, la riflessione continua con una conversazione aperta ai partecipanti (per chi volesse seguire la giornata via Zoom può scrivere a info@scuolamaraselvini.it per richiedere il link).
I dati indicano che il disagio manifestato da ragazzi e ragazze di età compresa tra i 13 e i 19 anni non solo è in aumento ma si manifesta con disturbi nuovi. Un fenomeno in piena evoluzione che sfugge alla comprensione della collettività e vede sempre più spesso gli adolescenti al centro di cronache drammatiche.
Abbiamo chiesto a due psicoterapeuti, Marta Zighetti, coordinatrice del Centro di psicoterapia e formazione “Essere Esseri Umani” di Varese, e Matteo Selvini, responsabile della scuola “Mara Selvini Palazzoli”, di inquadrare e spiegare i principali cambiamenti di questo fenomeno.
Dottor Selvini, i disturbi con cui gli adolescenti manifestano il loro disagio e la loro sofferenza nel tempo si sono diversificati. Accanto a bulimia, anoressia e dipendenze, sono comparsi atti di autolesionismo, il tagliarsi, il ritiro sociale, la depressione e il suicidio. A che cosa è dovuta questa situazione e quanto è legata al cambiamento della struttura familiare?
«Quando ho iniziato a fare lo psicoterapeuta, il tagliarsi era un disturbo che non si era quasi mai sentito. Ora invece è diventato uno dei sintomi più diffusi tra i ragazzi dai 14 ai 16 anni. Anche nelle famiglie ci sono grandissimi cambiamenti. Il più evidente è il tramonto della famiglia patriarcale e del maschilismo. Tutta la violenza maschile sembra legata a quello schema, duro a morire, è vero, ma ormai sulla via del tramonto. Oggi le famiglie sono più paritarie, meno gerarchiche e più aperte. Da sempre però c’è un fenomeno che noi intercettiamo spesso: un bambino che diventa adolescente tiene nascosti dei temi di grande sofferenza della sua vita. Questo è uno dei motivi per cui tante volte il lavoro individuale fallisce, cioè quando i motivi della sofferenza rimangono celati a tutti».
Spesso la cronaca ci mette di fronte a fatti sconvolgenti, penso alla recente strage in famiglia avvenuta a Paderno Dugnano. Per chi osserva da fuori è difficile comprendere le ragioni di un tale gesto. Quanto è importante la terapia familiare per far emergere quel segreto, cioè il non detto tra genitori e adolescenti? E quanto è difficile ottenere la collaborazione della famiglia?
Zighetti: «Incontriamo tantissime persone che hanno fatto dei tratti di percorso individuale e che poi inseriamo in una cornice familiare e vediamo dei genitori che vivono malissimo il fatto di essere stati estromessi per setting (l’insieme degli aspetti, delle regole e dell’area spazio temporale che contraddistinguono la relazione tra il terapeuta e il paziente, ndr). In questo modo si rischia di perdere fili di comunicazione importanti. A volte per un giusto rispetto della privacy del ragazzo, diventato maggiorenne, i genitori vengono tenuti completamente fuori. Ma non conoscendo il mondo interiore del figlio, non possono essere messi nelle condizioni di riparare. Non si vuole certo colpevolizzare il genitore. Anzi, una parte del trauma per un genitore è proprio il sentirsi impotente di fronte al malessere dei figli. Il poter fare qualcosa invece dà un grande sollievo. Questa apertura non è la negazione di una correlazione di quel malessere con la famiglia stessa. Ma correlazione non è sinonimo di colpa».
Selvini: «È evidente che nel caso di Paderno Dugnano c’è stata una sofferenza a un livello inimmaginabile. L’altra evidenza è che nessuno se ne sia accorto, neanche i familiari. Pertanto l’elemento di cui dobbiamo prendere atto è che il segreto della sofferenza produce mostri. È abbastanza difficile far capire l’utilità della terapia familiare, perché spesso viene vista come un processo, una messa sotto accusa, una colpevolizzazione. Mentre il tema della collaborazione è legato alla comprensione delle ragioni del malessere di un ragazzo. Quando quella collaborazione riesce, è una cosa molto bella».
Mara Selvini Palazzoli (1916-1999) fu un’autentica pioniera della terapia familiare. Quanto è cambiata oggi quella terapia?
Selvini: «Cinquant’anni fa c’era l’idea che fosse necessario vedere la famiglia tutta insieme, oggi abbiamo capito che non sempre è così. La scelta di chi far intervenire alla seduta per far venir fuori i segreti è una decisione molto delicata, che richiede un percorso. All’inizio vedi tutta la famiglia, poi magari è opportuno vedere il ragazzo da solo per far emergere qualcosa, da riportare nella terapia familiare, fino a quando qualcuno inizia a parlare. Bisogna raggiungere un equilibrio che scaturisce dalla collaborazione con i genitori e con il ragazzo. Spesso invece, anche in casi molto gravi che arrivano al tentato suicidio, sentiamo genitori affermare che il terapeuta non parla con loro per una questione di privacy. Mentre la presa in carico dei genitori per cercare di aiutarli è una scelta di buon senso».
I genitori hanno dunque il dovere di varcare la soglia della cameretta dell’adolescente?
Zighetti: «Ci sono dei casi in cui quella soglia va varcata e altri in cui va rispettata la privacy dell’adolescente. Fino a una certa età, il cervello dei ragazzi è strettamente dipendente dalle qualità delle relazioni primarie. Se il terapeuta tratta solo il ragazzo e le cose a casa continuano identiche a prima, allora si rischia di non portare sufficientemente fuori il ragazzo da quel contesto. Dipende da caso a caso, perché ci sono delle famiglie più invischianti di altre, dove è giusto mettere un confine e quindi segnalare anche con la convocazione che nessuno dovrà entrare nello spazio di terapia. Mentre per le famiglie molto trascuranti, chiamare i genitori significa riavvicinarli e aiutarli a darsi una mano.
I dati indicano che il disagio psicologico aumenta tra le ragazze e nella fascia di età tra i 14 e i 18 anni. A che cosa è dovuto questo fenomeno?
Selvini: «Su questo tema non ho certezze ma solo ipotesi. Penso che le ragazzine di oggi abbiano una vita più complicata, perché il loro orientamento sessuale non è più scontato ma devono scegliere. È un passaggio che gli complica l’esistenza. Indubbiamente è molto più semplice affermare: “Sono eterosessuale e mi piacciono i maschi” perché una tale affermazione ti dà una base esistenziale solida».
Zighetti: «Viviamo um tempo in cui la percezione della fragilità del mondo entra nel quotidiano. Questa libertà è una ricchezza perché non è inserita in schemi rigidi, ma è scomoda e faticosa. Sentendo i discorsi dei ragazzi di oggi la cosa più evidente è che hanno una prospettiva più corta. Sono angosciati dal futuro del mondo. La complessità da una parte è libertà e dall’altra è angoscia. E se nessuno ti orienta, diventa indecifrabile, anche per i genitori».
Il recente caso della strage familiare avvenuta a Paderno Dugnano ci interroga anche sul ruolo che deve avere la stampa. In tv assistiamo a trasmissioni urlate, piene di giudizi e racconti senza un minimo di pietas nei confronti dei protagonisti. Che cosa potrebbe fare il mondo dell’informazione per aiutare a comprendere meglio certi fatti?
Zighetti: «Di fronte a questi fatti ci vuole il rispetto di un tempo di conoscenza reale. Ho letto recentemente un intervento del collega Vittorio Lingiardi in cui si chiedeva come era possibile esprimersi su un fatto così grave senza avere avuto il tempo di conoscere la famiglia, il ragazzo e il contesto in cui è successo. Quale narrazione fare di questi eventi? Questo è il tema. È chiaro che il giornalismo ha bisogno di attirare l’attenzione, però ci vuole un tempo di decantazione che vada oltre la spettacolarizzazione. Andare incontro alle ondate emotive vuol dire alimentare la psicologia delle folle. E la folla diventa cieca».
Selvini: «La stampa potrebbe aiutare a intercettare il livello sociale del disagio che non viene quasi mai rilevato perché le strutture psichiatriche e sociali per la prevenzione in Italia non esistono. Al pari delle famiglie anche le altre comunità di riferimento sono importanti per far emergere il disagio segreto. Lavorando con la Svizzera, osservo che c’è una differenza enorme rispetto all’Italia. Per esempio, nella Confederazione elvetica ci sono strutture che vanno a intercettare i disoccupati facendo emergere al contempo la presenza di pazienti gravissimi che stanno chiusi in casa e non fanno nulla. In Italia non esiste nulla del genere, pensiamo ai cosiddetti Neet, i giovani che non lavorano, non studiano e non ricevono alcuna formazione. In Italia è solo una percentuale molto bassa che si rivolge alla neuropsichiatria, mentre la maggior parte è abbandonata a se stessa. Ci vogliono strutture che intercettino questo malessere. Il funzionamento dei servizi sociali e psichiatrici in Italia è un’area di grande debolezza. Ci sono colleghi psichiatri che hanno in carico trecento pazienti: che cosa possono fare per loro? Quanto tempo possono dedicargli? Si è sviluppato in questo settore un servizio privato di buon livello ma classista perché può accedervi solo chi ha le risorse economiche. Ècco perché nascono iniziative diciamo di sussidiarietà come quella di Marta e quella della mia scuola, dove si cura il disagio».
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