L’America di Trump: un nuovo capitolo storico tra potere, disgregazione e innovazione
Come un moderno Giulio Cesare, Trump è determinato a ridefinire le istituzioni, spingendo al limite i confini tra governance democratica e autoritarismo tecnocratico. Allo stesso tempo, bisogna rimanere lucidi e aperti (di Giuseppe Geneletti)

Nelle settimane passate, lavorando con un’influente professoressa americana di leadership, ho sperimentato direttamente l’attesa per l’esito delle elezioni presidenziali e la reazione alla vittoria schiacciante di Donald Trump. La settimana scorsa, mi ha detto: “Il giorno in cui sono stati annunciati i risultati stavo salendo sul palco per fare un discorso sul cambiamento e l’innovazione in una conferenza di leaders a Copenaghen. Quando me l’anno detto mi sono paralizzata. Adesso rimango scioccata come non lo sono mai stata in vita mia. Voglio solo mettere la testa sotto la sabbia come uno struzzo e non tirarla fuori per 4 anni. Lo smarrimento e l’angoscia sono troppo forti.”
Questa reazione contrasta fortemente con quella di un mio caro amico italiano che da anni non vedeva l’ora del ritorno di “The Donald” o, come lo chiamano i suoi fedeli, del “MAGA King” (Re MAGA), in riferimento al suo famoso slogan Make America Great Again (MAGA). Per loro Trump è l’emblema dell’anti-establishment, della lotta totale all’ipocrisia del politicamente corretto, un attore neo-rivoluzionario contro lo strapotere delle lobby e del gattopardiano controllo dei gangli del sistema finanziario, mediatico e politico dei poteri forti tradizionali.
L’elezione di Donald Trump per un secondo mandato presidenziale rappresenta un momento di profondo cambiamento, non solo per gli Stati Uniti ma per il mondo intero. Analizzare le sue nomine e la direzione della sua amministrazione è come osservare l’ennesimo capitolo di un dramma storico ciclico: l’ascesa di leader che promettono rivoluzioni e semplificazione, ma che spesso seminano polarizzazione e trasformazioni imprevedibili.
Come un moderno Giulio Cesare, Trump è determinato a ridefinire le istituzioni, spingendo al limite i confini tra governance democratica e autoritarismo tecnocratico. Allo stesso tempo, bisogna rimanere lucidi e aperti. Ogni era di sconvolgimenti ha seminato i germi dell’adattamento e della resilienza. La Repubblica Romana ha ceduto il passo all’Impero, ma ha anche dato vita a nuovi sistemi di governo. La caotica Rivoluzione Industriale ha portato a progressi tecnologici e sociali senza precedenti. La domanda cruciale è se le istituzioni e gli individui saranno in grado di adattarsi a questi cambiamenti senza perdere di vista i valori fondamentali che sostengono il benessere collettivo.
Nomine e scelte simboliche. Le nomine di Trump riflettono una chiara volontà di rompere con la tradizione e impostare una governance improntata su potere centralizzato, economia nazionale e valori culturali conservatori.
Doug Burgum e il ritorno al “Manifest Destiny”.
La scelta di Doug Burgum come Segretario degli Interni, con il compito di gestire il 20% delle terre pubbliche americane, segnala un ritorno al modello di sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Questo richiama l’espansione verso Ovest del XIX secolo e l’ideologia del “Manifest Destiny,” che giustificava la conquista territoriale a scapito delle popolazioni indigene. Oggi, il parallelo è evidente: il nemico non è più la natura selvaggia, ma il cambiamento climatico. La retorica di Burgum, favorevole a un’espansione senza freni delle trivellazioni, potrebbe trasformare le terre pubbliche in una risorsa esclusivamente economica, sacrificando i principi di tutela ambientale.
Chris Wright e l’energia fossile. Chris Wright, nominato Segretario dell’Energia, incarna una visione industriale che privilegia la supremazia energetica americana. Conosciuto per la sua opposizione al consenso scientifico sul cambiamento climatico, Wright propone un ritorno al paradigma industriale del XX secolo, dove il progresso economico prevaleva sui costi ambientali. Questa politica ricorda l’era di Ronald Reagan, ma con un’enfasi moderna sull’uso della tecnologia per consolidare il dominio geopolitico degli Stati Uniti.
Pete Hegseth e la crociata culturale. La nomina di Pete Hegseth a Segretario della Difesa è altrettanto simbolica. Con una retorica che fonde religione, militarismo e politica, Hegseth rappresenta una narrazione che alimenta divisioni interne e globali. Il suo richiamo al “Deus Vult” delle crociate medievali si inserisce in una tradizione americana di revival religioso, ma questa volta rischia di avere conseguenze globali, destabilizzando non solo la politica interna ma anche le relazioni con gli alleati.
Tulsi Gabbard e l’isolazionismo americano. Tulsi Gabbard, nominata Direttrice dell’Intelligence Nazionale, incarna un ritorno all’isolazionismo che ha caratterizzato gli Stati Uniti tra le due guerre mondiali. Le sue posizioni filorusse e anti-globaliste potrebbero compromettere le relazioni con gli alleati e alterare l’equilibrio del sistema di sicurezza internazionale, proprio come accadde quando l’America esitò a intervenire nei conflitti globali del XX secolo.
Governance tecnocratica: tra innovazione e controllo. L’istituzione del “Department of Government Efficiency” (DOGE), affidato a Elon Musk e Vivek Ramaswamy, rappresenta il tentativo di Trump di fondere tecnologia e governance. Questo modello ricorda i “Piani Quinquennali” dell’Unione Sovietica, con la differenza che qui la tecnocrazia è filtrata attraverso un’ideologia libertaria. Tuttavia, la concentrazione di potere in un’élite tecnologica, per quanto innovativa, rischia di minare la democrazia, trasformando il sistema in una macchina centralizzata incapace di adattarsi alle esigenze della popolazione.
La nomina di Marco Rubio a Segretario di Stato segnala una politica estera bilaterale e aggressiva, che abbandona le istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite a favore di alleanze strategiche selettive. Con l’accentuarsi della competizione tecnologica con la Cina, l’America si prepara a una nuova “guerra fredda digitale,” in cui il controllo dell’intelligenza artificiale e delle infrastrutture energetiche diventa cruciale.
Come Giulio Cesare nel declino della Repubblica Romana, Trump sembra voler concentrare il potere personale, sfidando i limiti istituzionali della democrazia americana. Allo stesso modo, Mussolini e Thatcher hanno utilizzato la loro leadership carismatica per ridefinire i sistemi economici e politici delle loro nazioni, spesso a costo di profonde divisioni sociali. Trump combina elementi di entrambi: un populismo che promette ordine e prosperità, ma che rischia di lasciare dietro di sé una scia di polarizzazione e instabilità.
C’è però anche una paradossale opportunità che potrebbe rivelarsi cruciale. Come scrive Simon Jenkins sul Guardian “L’essenza di Trump non risiede nell’ideologia ma nell’imprevedibilità: è un negoziatore, non uno stratega. I suoi errori passati e le sue vulnerabilità potrebbero trasformarlo in un paradossale portatore di cambiamento, spingendo l’America a ripensare le sue priorità e ad adattarsi alle realtà globali”. Il secondo mandato di Donald Trump potrebbe moderare le politiche fiscali, rivedere le relazioni commerciali e spingere i movimenti progressisti a colmare il divario con l’America della classe lavoratrice, che vede la leadership democratica come un’elite distante.
L’America di Trump si trova a un bivio. La storia insegna che i sistemi solidi possono adattarsi anche nelle tempeste più violente, ma questo è possibile solo se le voci della democrazia e del dissenso non mettono la testa nella sabbia. Anzi, richiede vigilanza, resilienza e una capacità collettiva di affrontare le contraddizioni del potere. Il mandato di Trump non è solo un momento di crisi; è un’occasione per riflettere sulle fragilità e sulle potenzialità della democrazia stessa. Se il passato è un prologo, allora il secondo mandato di Trump sarà una tempesta che ridefinirà l’equilibrio tra potere, progresso e umanità, lasciando un’impronta duratura nella storia americana e mondiale.
La demonizzazione non aiuta nessuno. Bisogna rimanere vigili, studiare, capire e stare nel gioco.
“Non si dà infatti una storia, un mestiere di storico, bensì dei mestieri, delle storie, un complesso di curiosità, di punti di vista, di possibilità cui altri si aggiungeranno ancora domani”, Fernand Braudel.
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