Varese in ritardo sulla finanza innovativa: l’ecosistema finanziario punta a colmare il gap culturale
Nel contesto delle pmi varesine, ancorate a un modello “bancocentrico”, la sfida della competitività si gioca sul campo del mercato dei capitali
Non è certo una novità che le pmi sul piano finanziario siano piuttosto tradizionaliste o “bancocentriche”, cioè poco disposte a innovare sulla propria finanza. Se poi a questo si aggiunge il basso tasso di presenza di manager specifici nei cda, allora l’approccio a forme di finanza alternativa diventa problematico.
«Negli ultimi anni è proprio sullo sviluppo finanziario che Varese sta perdendo posizioni nella macro dimensione della competitività» ha detto Roberto Grassi presidente di Confindustria Varese in apertura del convegno “Conoscere per crescere: nuova finanza d’impresa e mercato dei capitali per lo sviluppo imprenditoriale” che si è tenuto nel cuore della finanza italiana e moderato da Marco Crespi, responsabile dell’Area finanza di Confindustria Varese..
PORTARE LE IMPRESE IN BORSA
La scelta di portare le aziende varesine a Palazzo Mezzanotte, sede milanese di Borsa italiana, con una serie di partner qualificati come Aifi, Elite, Kpmg e Università Liuc – ovvero l’associazione, lo strumento, il consulente e l’accademia – è stata una forzatura necessaria per superare un gap che è tutto culturale.
Il posizionamento dell’economia varesina indicato da Grassi è la cartina tornasole di questa mancanza: Varese è 101esima in Italia per i finanziamenti pubblici e a metà classifica (54mo posto) nel ricorso agli strumenti di finanza innovativa – quali private equity, venture capital, crowdfunding e quotazione in borsa – , sia in quella della finanza più tradizionale, rappresentata dell’indebitamento bancario (53mo posto).
L’IMPORTANZA DEL PRIVATE CAPITAL
La resistenza all’innovazione culturale può generare tabù anche in economia. Il dato reso noto da Innocenzo Cipolletta, presidente di Aifi ( Associazione italiana del private equity, venture capital e private debt) forse indica che il tabù già esiste se «solo 1,5% delle oltre 200mila pmi viene supportato da strumenti di venture capital, private equity e private debt».
In un ecosistema dove l’85% delle imprese è espressione del capitalismo familiare, il private capital potrebbe giocare un ruolo fondamentale nell’abbattere quel tabù. «Private equity, venture capital, borsa, basket bond e banche – aggiunge Anna Gervasoni, rettore dell’università Liuc e direttore di Aifi – sono tanti tasselli per una finanza che deve stare a fianco delle imprese e che devono esserci nelle varie fasi della vita dell’impresa ed essere conosciute. In questo senso è molto importante il lavoro che sta facendo Confindustria».
Nell’ecosistema finanziario italiano le banche devono diventare complementari al private capital. Non era dunque casuale la presenza al convegno milanese dei rappresentanti della Bcc di Busto Garolfo e Buguggiate, considerata banca espressione del territorio varesino, dopo la “scomparsa” nel 2020 di Ubi Banca coinvolta nel risiko bancario scatenato da Intesa Sanpaolo.
L’OSSERVATORIO LIUC
L’università Liuc ha realizzato l’Osservatorio private equity monitor che da 24 anni va a vedere che cosa succede nelle aziende che entrano nel portafoglio di un fondo private equity. Il 73 per cento delle operazioni di private equity viene fatto in aziende familiari e nel 40 per cento di queste operazioni la famiglia resta. Il pilastro del capitalismo italiano rimane dunque in piedi e in perfetto equilibrio con la tradizione. E non c’è motivo di temere il contrario. «In Italia due aziende su tre sono di proprietà familiare – spiega Mauro Iacobuzio, responsabile per l’Italia di Elite-Gruppo Euronext – e sono presenti soprattutto nei settori del food, nella meccanica e metallurgia. I dati dimostrano che questo è un modello che ha funzionato bene negli ultimi dieci anni sia in termini di crescita, di ricavi e di redditività».
LEADERSHIP AZIENDALE
La leadership del capitalismo familiare italiano è piuttosto vecchia e nel programma Elite si tende a parlare più di convivenza generazionale che non di successione imprenditoriale. «Ci vorrebbe una sorta di Cantera (termine calcistico per indicare scuole giovanili, ndr) all’interno di ogni azienda in cui far crescere dei nuovi manager – continua Iacobuzio – da far entrare nei board o nei cda e farli allenare. Nelle piccole imprese, tre aziende su quattro non hanno nessun consigliere cosiddetto giovane, dove per giovane s’intende in generale una persona dai quaranta ai cinquant’anni».
Il programma elaborato da Borsa italiana, nato come una palestra per quelle imprese che vogliono prepararsi alla quotazione, è uno strumento che accompagna le imprese ad affrontare queste criticità e nel percorso di crescita. «È una sorta di ponte – sottolinea Marta Testi ceo di Elite – tra chi fa impresa e chi si occupa di offrire la finanza agli imprenditori».
UN PONTE DA ATTRAVERSARE
Un ponte che ben 2400 imprese italiane hanno attraversato negli ultimi 12 anni, di cui 28 imprese della provincia di Varese. Passare dalla banca al mercato dei capitali è un percorso che si può attraversare con l’equipaggiamento adatto. Sul perché bisogna attraversarlo lo hanno spiegato bene Maximilian Fiani e Ivan Spertini di Kpmg: «Abbiamo due transizioni in atto molto rilevanti, quella climatica e quella digitale, c’è un tema di competitività e di produttività. C’è un gap pauroso che si è aperto e pertanto dobbiamo agire in maniera molto repentina per finanziare la crescita, ma il debito bancario da solo non è più sufficiente. Abbiamo il private capital, la Borsa e tantissimi altri strumenti per finanziare questi investimenti».
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