L’educazione in Val di Tara: orizzonti angusti da superare

Di Giuseppe Geneletti

scuola

Oggi, il quotidiano La Stampa ha pubblicato un intervento di Igiaba Scego: “Le classi di Valditara con Bibbia e latino, ma è un errore limitarsi alla storia occidentale”. Scego è una scrittrice nata in Italia da una famiglia somala, figlia di Ali Omar Scego, primo governatore di Mogadiscio, ambasciatore e ministro degli esteri emigrato in Italia all’indomani del colpo di Stato di Siad Barre del 1969. Dopo la laurea in Letterature straniere presso la Sapienza di Roma, ha svolto un dottorato di ricerca in Pedagogia all’Università degli Studi Roma Tre e si occupa di scrittura, giornalismo e di ricerca incentrata sul dialogo tra culture e la dimensione della transculturalità e della migrazione.

Ecco quello che scrive: “Il latino va benissimo, va benissimo anche alle medie e il punto non è quello. Della riforma della scuola mi preoccupa quell’obbligare il corpo docente a rinchiudere se stesso e i propri studenti solo e unicamente nell’ambito della storia italiana, europea e occidentale, abolendo di fatto la geografia e il resto del mondo. Così rischiamo di rendere i nostri giovani meno competitivi sul mercato mondiale. Di fatto rischiamo di renderli soli e marginali. Il futuro infatti si giocherà sulle tecnologie, intelligenza artificiale in testa, sulle scienze, ma anche su saperi umanistici ben calibrati. Avere i giovani digiuni di Asia, pensiamo alle forze emergenti di Corea, Indonesia, Vietnam, India o di Africa, a chi gioverà? Di certo, non a noi. Ultimamente pensavo a quanto l’Africa sia citata nei meeting internazionali come continente del futuro, e di come anche in Italia si parli spesso di Piano Mattei. Ma mi chiedo: chi lavorerà al piano con i vari paesi dell’Africa, se non stiamo preparando i nostri giovani a farlo? In altre parti del mondo l’approccio è diverso. In Cina, per esempio, l’Occidente diventa materia di studio. C’è un boom di studi classici: si studiano Platone, Aristotele, ma anche Ovidio e Virgilio, per capire noi chi siamo, cosa facciamo e faremo. Una strategia geopolitica che noi dovremmo copiare. Anche un detto del profeta Mohammed, probabilmente apocrifo, ma ormai è entrato nella tradizione orale, recita così: andate alla ricerca della conoscenza, quand’anche fosse in Cina; nel senso che dovete andare ovunque possibile, anche lontanissimo, perché la conoscenza è tutto. Noi, invece, con questa riforma stiamo facendo l’esatto opposto. Non studiando gli altri, ci auto-condanniamo ad abitare un margine, a galleggiare, di fatto, in una dorata mediocrità, condannando le generazioni che verranno a subire il futuro”.

L’intervento di Scego risuona profondamente con la mia esperienza personale e professionale. Sono nato a Milano, una città già internazionale, e dopo il liceo scientifico Einstein, dove ho avuto una solida base di conoscenze scientifiche e umanistiche, ho studiato economia aziendale alla Bocconi. Erano anni in cui la scuola era ancora fortemente influenzata dal rigore e dalla disciplina imposta da personaggi con posizioni conservatrici in un clima di scontri politici e sociali e di cui mi piace riportare il pensiero acuto quanto arguto. Enrico Giorgiacodis è stato preside al liceo Einstein di Milano ed è l’autore di “L’utopia istituzionalizzata. 1969-1983: 14 anni in un liceo italiano”. Eccone un capitoletto emblematico: “Uno da prendere a schiaffi, 1984”.

“Fu un’occupazione singolare, che veniva attuata solo di pomeriggio in aula magna, nella quale sciamavano personaggi di ogni ceto e di ogni parte politica. Grottesco era stato il prologo. Due nostri ragazzi A. R. e C. C., studenti di classi quinte, si erano fatti annunciare con altri, per un colloquio. Il primo dei due, dopo aver invaso con i glutei la sponda sinistra della mia scrivania, quasi voltandomi le spalle, mi disse: ” Fino a dopodomani lei sarà preside poi basta “. “Benissimo”, risposi, “ma ora dimmi chi prenderà il mio posto”. “Io”, mi replicò in tono serio e con durezza, “perché il movimento mi ha insegnato a capeggiare la cogestione, il coordinamento di tutte le commissioni di studio ed operative di questa scuola”. “Intanto che sono ancora il preside per qualche giorno” ripresi “mi comporterò come tale”.

Il giovane C. C., angelo decaduto, sostenne il compagno con vigore pari all’importanza della “missione” loro affidata dai demagoghi di fuori, allineandosi ad A. R. nei più tristi presagi per il futuro del liceo qualora non mi fossi “messo da parte”, ma era angosciato dal giudizio del Cielo, e il suo starnazzare era di gallina quae vult obstripetam aquilam imitari.

L’esperienza insegna che, di fronte a situazione apparentemente insormontabili, il rimedio è uno solo: estrema freddezza e tanta determinazione del decidere; legge alla mano, si intende. Riunii perciò immediatamente il Collegio dei Professori e furono attribuiti a ciascuno dei due 15 giorni di sospensione delle lezioni, a norma dell’articolo 19 lettera D della legge 653. Non si poté fare altrimenti. Ma conservo il dubbio che C. C., per la sua condizione di transfuga dal campo cattolico e di capofila del movimento, avesse strepitato senza autentica convinzione. Quanto ad A. R., il discorso è diverso ed emblematico dello sfacelo morale del momento. Apparteneva, me lo disse la cortesissima madre, ad una famiglia di professionisti che la sorte aveva gratificati di un altissimo censo; si giovava di un nucleo di zii, privi di discendenti, che avrebbero convogliato su di lui un patrimonio di centinaia di milioni, non svalutati come quelli di oggi. Un giovane, mi disse sua madre, che avrebbe potuto scegliere di frequentare gli studi universitari dove avesse voluto: ad Oxford, a Cambridge, a Parigi, a Tel Aviv. Un ragazzo afflitto dal complesso di colpa del ricco, del privilegiato, rifiutava il bacio della fortuna dissimulandola sotto vestimenta da straccione, blue jeans sdruciti ed oleosi, eschimo imbrattato, così come dissimulava i moti dell’animo sotto un’ispida ed incolta barba. Vero è che più tardi, in primavera, in piazza del Duomo, al nostro vicepreside accadde di scoprirlo splendidamente agghindato, mondato di barba e di zazzera ed in abiti da cerimonia!

“Non sei più tu”, gli disse, “sembri un dandy: hai tradito il tuo dan?”. “No” fu la risposta “debbo purtroppo partecipare a una riunioni conviviale della mia vasta famiglia ed arrossì.

Ecco: l’abbigliamento scolastico era per lui una divisa, abito di guerra: l’aggressività era un comportamento indotto, che diventa diventava agnellesco quando tradizioni familiari o comode prospettive emergevano leonine. La sua identità ne risultava stravolta, ogni sincerità dissipata. Di ragazzi come A. R. a Milano ed in Italia, c’erano nugoli: radical-chic salottieri e mondani, orbati di “valori” e perciò disponibili ad ogni avventura, interiormente fragili, socialmente pericolosi perché ignari di sé medesimi. Ne faccio cenno, non per conferire una nota di colore alla mia testimonianza; ne parlo perché, nella variegata tipologia dei sessantottini, questo mi è sempre parso il tipo più inquietante: gente intrinsecamente vuota, e tanto ipocrita. Questi di quesiti quanti di questi “mascherati”, oggi tra i 34 e i 38 anni, hanno colmato quel vuoto? E di che cosa lo hanno riempito? La mia impressione è che parecchi di loro, avvalendosi di consolidata e disonesta dissimulazione, si siano inseriti nel “sistema”, ed anche a buoni livelli. Meditino i politici, almeno quelli cui l’anagrafe consente di avvertire l’horror vacui”.

Forte di questo tipo di esperienze educative e formative, dopo un paio di anni come giovane “apprendista” per Arthur D. Little, una boutique della consulenza per grandi organizzazioni come la Fiat degli Agnelli — quando Alfa Romeo e Lancia erano ancora marchi blasonati a livello europeo — decisi di ampliare i miei orizzonti con un master in business administration all’INSEAD, in Francia. Ricordo mio padre che cercava di dissuadermi: “Hai già studiato tanto, perché andare via?”. Mia madre, invece, era entusiasta dell’idea. Fu un anno meraviglioso nella foresta di Fontainebleau, condiviso con studenti di tutto il mondo e professori veramente visionari.

Dopo il master, ebbi offerte di lavoro in Italia, nel Regno Unito e in Francia, ma scelsi di andare oltre Atlantico, negli Stati Uniti, per lavorare con Whirlpool nel Michigan. Fu un mondo completamente nuovo: un ambiente dove imparai a gestire l’innovazione e il marketing, lavorando con clienti come Sears e Ikea e collaborando con fornitori in Corea, Giappone e Svezia. Questo bagaglio di esperienze internazionali continua a essere una fonte inesauribile di insegnamenti che applico ogni giorno.

Guardando indietro, mi rendo conto di quanto sia stato cruciale per me il contatto con culture diverse e approcci educativi e al lavoro eterogenei e anche radicalmente opposti. L’ossessione di alcune riforme per limitare l’orizzonte formativo alla tradizione occidentale rischia di soffocare il potenziale delle nuove generazioni. Come evidenziato anche dalle strategie educative in Cina, studiare l’altro è fondamentale per comprendere meglio noi stessi e per costruire relazioni efficaci. Al contrario, un’educazione autoreferenziale non solo isola i giovani italiani, ma limita anche la loro capacità di innovare e collaborare in un mondo sempre più interconnesso.

È tempo di ripensare il nostro approccio educativo, riconoscendo che la diversità culturale e l’integrazione tra discipline sono risorse fondamentali per affrontare il futuro. Le parole di Scego non sono solo una critica: sono un invito a preparare i giovani ad abitare il mondo in modo pieno e consapevole. E questo richiede una scuola che non tema di guardare oltre i propri confini.

E quindi uscimmo a riveder le stelle“, Dante Alighieri.

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Pubblicato il 18 Gennaio 2025
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