Ivan Basso e il doping: “Mi vergogno, ho pensato solo a vincere”

In una lunga intervista al Corriere della Sera l’ex ciclista di Cassano Magnago ripercorre i momenti della sua carriera e della sua vita, partendo dalla squalifica del 2007 e ammettendo le sue colpe

ivan basso

Un fiume in piena, un’intervista ricca di episodi, aneddoti, confessioni, pentimento e sentimento. Ivan Basso, 47 anni, ex ciclista professionista nato e cresciuto a Cassano Magnago ha parlato al Corriere della Sera aprendosi e toccando i punti più critici della sua carriera, ma anche della sua vita.

Con Marco Bonarrigo e Aldo Cazzullo ha ripercorso i momenti cruciali della sua esperienza sulle due ruote, le vittorie al Giro d’Italia, il doping, la squalifica, il ritorno. Ma anche la sua infanzia, la famiglia, i suoi quattro figli, la malattia. Una vera e propria intervista/confessione che apre diversi scorci sull’esperienza di un campione che ha sbagliato, ha ammesso l’errore e oggi rilegge il tutto con lucidità e senza autoassoluzioni di rito.

Basso ha raccontato al Corriere della Sera della sua infanzia, di sua madre Nives e suo padre Franco, della macelleria di famiglia, delle litigate e della passione per la bicicletta: le prime gare, vinte, che facevano anche da “anestetico” alle discussioni in casa. Citazione d’obbligo anche per Miro Panizza, grande ciclista del passato, la cui moglie era la maestra alle scuole elementari di Ivan. E poi l’incontro con l’idolo di allora, Miguel Indurain, i sacrifici e la fatica in uno sport che richiede una vita quasi “monacale” fin da giovanissimi, soprattutto se si è considerati un potenziale prodigio della disciplina.

E poi la squalifica per doping, una pagina dolorosa che Basso racconta al Corriere della Sera aprendosi forse per la prima volta: “Contattai un medico spagnolo specializzato in trasfusioni, vietate. A Madrid mi feci prelevare due sacche di sangue che poi mi sarei fatto iniettare prima del Tour per avere globuli rossi più freschi e andare più forte. Ma in un’operazione investigativa della polizia spagnola trovarono le sacche congelate, mie e di altri, e associandole al Dna nelle banche dati della federazione mi identificarono. Lo feci perché avevo un desiderio sfrenato, incontrollabile di vincere tutto. E consapevolezza che con quel metodo avrei potuto realizzare il sogno. Ero cresciuto in quel modo e nulla avrebbe potuto fermarmi, sapevo cosa stava succedendo ma non volevo rendermene conto. Pensavo di essere nel giusto. Non ho fatto in tempo a doparmi. Ma so cos’ho fatto, riconosco le mie colpe, e mi vergogno. Ma ci sono motivazioni più profonde in quello che ho fatto. Come quasi tutti all’epoca, non ero educato all’etica della vittoria e della sconfitta, anzi non avevo nessuna etica. Mettevo davanti al giusto ma anche alla mia famiglia la voglia sfrenata di vincere. Per questo oggi l’etica è la prima cosa che cerco nei miei corridori. All’inizio negai tutto ostinatamente. Poi ammisi ogni colpa, concordai un lungo periodo di squalifica. Quando firmai la confessione Ettore Torri, l’ex capo della procura di Roma prestato all’antidoping, mi disse: “Basso, un giorno lei capirà di non aver bisogno di queste porcherie”. Parole ripetute tre anni dopo, e non più in un tribunale, quando vinsi il mio secondo Giro d’Italia”.

Basso ha parlato anche del suo rapporto con Lance Armstrong, dell’aldilà, del rapporto con la moglie Micaela e di quella chiacchierata che mise in chiaro gli errori, l’ossessione per il successo e il rischio di perdere le cose più importanti, a partire dalla famiglia. E la malattia, il tumore ai testicoli scoperto per caso, dopo una caduta al Tour del France, che ha sancito la fine della sua carriera sportiva.

Oggi Basso coltiva mirtilli con Micaela, è ancora nel mondo del ciclismo e ha un figlio, Santiago, che è appena passato professionista: “Io e Micaela proviamo gioia pensando che lui lavora in un mondo molto più etico di quello in cui vivevo io, che non ha la minima idea di quello che ci circondava e ci tentava alla sua età”.

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Pubblicato il 23 Febbraio 2025
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