Come intervenire in caso di occlusione delle coronarie: bypass o angioplastica? Risponde il cardiochirurgo di Varese Cappabianca

Il dirigente Medico della Cardiochirurgia dell’Ospedale Circolo di Varese parla dell'aterosclerosi coronarica, cos’è e quali sono i fattori di rischio, delle cardiopatie ischemiche e dei trattamenti possibili

sala ibrida angiografo

Dopo aver trattato la stenosi aortica e l’aneurisma aortico,  il chirurgo Giangiuseppe Cappabianca dirigente Medico presso la Cardiochirurgia dell’Ospedale Circolo di Varese, Asst Sette Laghi, prosegue gli approfondimenti di chirurgia cardiovascolare affrontando la questione delle occlusioni delle arterie coronarie e come intervenire.
(nella foto la sala ibrida dell’ospedale di Varese)


Bypass o angioplastica: qual è la scelta migliore per trattare la malattia coronarica?

Il cuore è un muscolo che lavora incessantemente per pompare sangue ricco di ossigeno e nutrienti verso tutto l’organismo. Tuttavia, per poter funzionare correttamente e in maniera continuativa, anche il cuore stesso necessita di ossigeno e nutrienti, forniti da due arterie situate sulla sua superficie: le arterie coronarie.

Ma cosa succede quando queste arterie si restringono o si occludono? Quali sono le conseguenze e come si può intervenire?

Le arterie coronarie: cosa sono e quale funzione svolgono

Le arterie coronarie sono i vasi sanguigni che circondano il cuore e si distinguono due rami principali: l’arteria coronaria destra, che irrora la parete posteriore del cuore, e l’arteria coronaria sinistra, che origina come un tronco comune e si suddivide in due rami: l’arteria interventricolare anteriore, che fornisce sangue alla parete anteriore del cuore, e l’arteria circonflessa, che irrora la parete laterale.

Nonostante le loro ridotte dimensioni (in media 1-3 millimetri di diametro), le arterie coronarie svolgono una funzione cruciale: garantire che il cuore riceva costantemente il nutrimento necessario per contrarsi e funzionare in modo efficiente.

Aterosclerosi coronarica, cos’è e quali sono i fattori di rischio

Con il passare del tempo, le arterie coronarie possono andare incontro a un processo degenerativo noto come aterosclerosi. Questa condizione è causata dall’accumulo progressivo di placche lipidiche che ispessiscono la parete dei vasi, riducendone il lume e ostacolando il flusso sanguigno. Tra i principali fattori di rischio per lo sviluppo dell’aterosclerosi coronarica si annoverano l’ipertensione arteriosa, il diabete, il fumo di sigaretta, livelli elevati di colesterolo e trigliceridi nel sangue, oltre alla familiarità per malattia coronarica.

Che cos’è l’ischemia cardiaca e come si manifesta?

Il termine ischemia cardiaca indica una ridotta perfusione di sangue al muscolo cardiaco, dovuta al restringimento o all’ostruzione di una o più arterie coronarie. Questa condizione impedisce alle cellule del cuore di ricevere l’ossigeno necessario, compromettendone la funzione e, nei casi più gravi, provocandone la necrosi (infarto miocardico). Quando ciò avviene, le cellule morte vengono sostituite da tessuto cicatriziale, che non è più in grado di contrarsi, riducendo così la forza e l’efficienza stessa del cuore.

Il sintomo più comune dell’ischemia cardiaca è il dolore toracico, noto come angina pectoris, che può manifestarsi sotto forma di oppressione, bruciore o senso di costrizione al petto. A seconda della gravità e della durata, l’ischemia può avere conseguenze variabili, dal dolore transitorio fino all’infarto del miocardio.

Cardiopatie ischemiche: acute e croniche

Le cardiopatie ischemiche si suddividono in due categorie principali:

  • Forme croniche: comprendono condizioni come l’angina da sforzo, che si verifica quando una o più arterie coronarie si restringono progressivamente, riducendo gradualmente il flusso sanguigno. I sintomi, come il dolore toracico, si manifestano soprattutto durante l’attività fisica o situazioni di stress e migliorano con il riposo o con l’assunzione di farmaci specifici. Gli esami diagnostici più comunemente effettuati in questo caso sono l’ECG sotto sforzo o la scintigrafia miocardica.
  • Forme acute: sono generalmente causate dalla rottura improvvisa di una placca aterosclerotica, che porta alla formazione di un coagulo capace di ostruire parzialmente o completamente il lume dell’arteria coronaria. L’angina instabile e l’infarto miocardico rientrano nelle sindromi coronariche acute. La distinzione tra le due condizioni avviene mediante l’elettrocardiogramma (ECG), gli esami del sangue per rilevare enzimi cardiaci tipici dell’infarto e l’ecocardiogramma, che evidenzia nell’infarto aree del cuore con ridotta contrattilità.

Diagnosi delle cardiopatie ischemiche: il ruolo della coronarografia

In entrambe le circostanze, sebbene con un grado di urgenza differente, la coronarografia rappresenta l’esame diagnostico più accurato per valutare l’estensione e la complessità della malattia coronarica. Questo esame prevede l’inserimento di un sottile catetere attraverso un’arteria del braccio o della gamba fino all’imbocco delle coronarie. Grazie all’iniezione di un mezzo di contrasto iodato e all’uso di raggi X, la coronarografia consente di visualizzare in dettaglio la presenza, la sede e la gravità di eventuali restringimenti o occlusioni, permettendo così di pianificare il trattamento più adeguato.

Da alcuni anni, nei casi non urgenti, è possibile effettuare un esame radiologico non invasivo in alternativa alla coronarografia. Si tratta della TAC coronarica, che permette di ottenere immagini simili alla coronarografia, senza dover introdurre cateteri nel corpo.

Angioplastica coronarica: un intervento per riaprire le coronarie in tempi rapidissimi

Uno dei trattamenti più utilizzati per ripristinare il flusso sanguigno nelle coronarie è l’angioplastica. Questa procedura può essere eseguita subito dopo la coronarografia e prevede l’inserimento di un catetere fino all’arteria coronaria ostruita. Una volta posizionato nel punto critico, un palloncino situato sulla punta del catetere viene gonfiato per comprimere ed appiattire la placca aterosclerotica contro la parete del vaso, ripristinando così il flusso sanguigno. Per prevenire il rischio di una nuova ostruzione, nella maggior parte dei casi viene impiantato anche uno stent coronarico, una piccola rete metallica tubolare che mantiene l’arteria aperta e migliora la circolazione coronarica.

Vantaggi dell’angioplastica

L’angioplastica ha il grande vantaggio di poter essere effettuata in tempi molto rapidi dall’inizio dei sintomi in modo da evitare un danno irreversibile del muscolo cardiaco. Inoltre, essendo effettuata in anestesia locale, è poco invasiva e consente un recupero più veloce. La sua efficacia e, soprattutto, la sua durata nel tempo dipendono da numerosi fattori, tra cui:

  • Il numero delle lesioni coronariche coinvolte: se il restringimento interessa i rami che perfondono tutte e tre le pareti del cuore o, in alcuni casi, il tronco comune della coronaria sinistra,  il numero di stent da impiantare può diventare elevato e può essere preferibile effettuare il bypass.
  • La complessità delle lesioni coronariche: in caso di ostruzioni molto lunghe o localizzate in corrispondenza di biforcazioni tra i vasi sanguigni o in presenza di coronarie molto calcificate, quindi non solo difficilmente espandibili ma anche a rischio di rottura con il palloncino, il bypass è sicuramente preferibile.
  • Patologie associate: in pazienti affetti da diabete, numerosi studi hanno evidenziato che la durata nel tempo del bypass è superiore a quella dell’angioplastica. Anche nei pazienti con funzione cardiaca ridotta, molti studi indicano i bypass come soluzione preferibile.

Il bypass aorto-coronarico: un nuovo ponte per perfondere il cuore

Si tratta di un vero e proprio intervento chirurgico eseguito in anestesia generale. L’accesso al cuore avviene tramite un’incisione centrale sul petto, chiamata sternotomia e, nella maggior parte dei casi, viene utilizzata la macchina cuore-polmoni (la cosiddetta circolazione extracorporea) per mantenere la perfusione e la vitalità dell’intero organismo, mentre il cuore viene fermato per essere riparato. In alcuni casi, è possibile eseguire il bypass senza arrestare il cuore, utilizzando la tecnica “off-pump”.

L’intervento si svolge in due fasi. Nella prima, i chirurghi prelevano segmenti di vasi sanguigni da altre parti del corpo. Le opzioni più comuni includono:

  • Arterie mammarie interne, già presenti all’interno del torace, a destra e a sinistra dello sterno.
  • Arteria radiale, prelevata dall’avambraccio.
  • Vene grandi safene, prelevate dalle gambe con lunghezza variabile dell’incisione in base al numero di bypass da effettuare.

Nella seconda fase dell’intervento, i condotti prelevati vengono collegati alle arterie coronarie a valle del restringimento. Il bypass viene poi completato collegando gli stessi condotti su un vaso a  monte dell’ostruzione, generalmente sull’aorta (da cui il nome bypass aorto-coronarico). Questo permette al sangue di aggirare l’ostruzione e ripristinare il normale flusso nell’arteria coronaria occlusa.

In generale, l’utilizzo di uno o più condotti arteriosi (come le arterie mammarie interne e l’arteria radiale) durante l’intervento di bypass aorto-coronarico garantisce una maggiore durata nel tempo dei bypass rispetto ai bypass effettuati con la vena safena. Infatti, numerosi studi hanno dimostrato che, dopo dieci anni dall’intervento, oltre il 95% dei bypass arteriosi con le arterie mammarie rimane pervio, mentre il funzionamento dei bypass venosi si attesta intorno al 70%. Per questa ragione, i condotti arteriosi vengono sempre scelti per bypassare le arterie più grandi e funzionalmente più importanti.

L’intervento prevede un periodo di ricovero più lungo rispetto all’angioplastica, generalmente circa una settimana in ospedale, seguito da due o tre di settimane di riabilitazione. Tuttavia, nei pazienti con lesioni coronariche complesse e nei diabetici, garantisce un miglioramento significativo della durata e della qualità di vita e una riduzione del rischio di infarto e di angina nel lungo termine.

Strategie ibride: quando combinare bypass e angioplastica?

Nella pratica clinica quotidiana, il percorso terapeutico dell’angioplastica e del bypass aortocoronarico spesso si incrociano.

Un caso comune è quello in cui, durante una coronarografia in fase acuta, in presenza di una malattia che coinvolge tre vasi, si decida di trattare immediatamente con l’angioplastica la lesione responsabile dell’infarto e, successivamente, completare la rivascolarizzazione con un intervento di bypass, qualora le restanti lesioni coronariche risultassero più adatte alla chirurgia.

Un altro scenario riguarda pazienti con carenza di condotti venosi, ad esempio a causa di vene varicose alle gambe. In questi casi, le lesioni coronariche anatomicamente più complesse possono essere trattate con il bypass utilizzando condotti arteriosi, mentre le restanti lesioni possono essere trattate in un momento successivo con l’angioplastica.

Infine, la presenza di un’équipe multidisciplinare composta da cardiologi e cardiochirurghi e di sale operatorie ibride, che consentono di eseguire entrambe le tipologie di procedure nella stessa sala, permette di personalizzare la strategia terapeutica, ottimizzando la rivascolarizzazione in base all’urgenza ed alla complessità anatomica della malattia coronarica.

Conclusioni

La decisione tra bypass e angioplastica si basa su diversi fattori, tra cui l’estensione della malattia coronarica, la complessità delle lesioni, le condizioni generali e le patologie del paziente. L’angioplastica rappresenta una soluzione meno invasiva, con un recupero più rapido, o in situazioni di emergenza come l’infarto miocardico acuto. Il bypass, invece, è preferibile nei pazienti con malattia coronarica che coinvolge tre vasi, in presenza di lesioni anatomicamente complesse, o in pazienti diabetici o con grave disfunzione cardiaca. L’approccio ottimale è quello personalizzato e definito da una equipe di cardiologi interventisti e cardiochirurghi, per garantire il massimo beneficio in termini di sopravvivenza e qualità di vita.

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