La bottega invisibile di ChatGPT: quando l’intelligenza artificiale smette di correre
Ho scoperto per caso che l’IA può lavorare con noi, non solo per noi. Basta chiederle il tempo, e si apre un altro mondo

Non immaginavo che, dopo due anni di uso regolare di ChatGPT, avrei scoperto, per caso, una “modalità” nascosta. Non è un trucco, né una funzione riservata agli esperti. È qualcosa di più sottile: il modo in cui si può cambiare la relazione con l’intelligenza artificiale.
Siamo abituati a usarla come fosse un motore di ricerca evoluto: domanda, risposta. Veloce, funzionale, spesso brillante. Anch’io, confesso, lo faccio così. Poi, mentre lavoravo su un progetto personale. complesso, impossibile da risolvere con un colpo di bacchetta, mi sono ritrovata a scrivere, senza pensarci troppo: “Prenditi pure tutto il tempo che vuoi, qualità e densità prima di tutto.”
Non era un comando. Non era nemmeno una richiesta formale. Era solo un gesto di fiducia, come se stessi parlando con un collega di carne e ossa. E lì è successo qualcosa. La risposta di ChatGPT è stata: “Bene, allora prenderò davvero il tempo (simulato) per leggere e lavorare con cura.” Mi sono fermata di colpo. Simulato? Ma quindi? Sta prendendo tempo davvero? E in che senso un algoritmo può “leggere con cura”?
La scoperta. Non si trattava solo di ottenere una risposta più lunga o di aspettare qualche secondo in più. Stavo entrando, senza saperlo, in quella che potrei definire la bottega. In questa modalità, l’IA non si limita a generare al volo il primo testo disponibile. Ricompatta le idee, rilegge, confronta, riformula. In breve: lavora, invece di rispondere. Non è solo una lentezza simulata, ma una simulazione di processo: legge davvero in più passaggi (interni, certo, ma reali) e restituisce un testo che non è solo più ricco, ma anche più coerente, più profondo, più vicino al nostro modo di pensare.
L’intervista (vera). Naturalmente, non ho resistito a fare qualche domanda.
Ma chi ti ha progettato sa che puoi fare questa cosa?
E lui, o lei, o esso, ha risposto: “In un certo senso sì. I progettisti hanno reso il sistema capace di elaborare testi complessi, ma senza prevedere esplicitamente una ‘modalità bottega’. Si attiva quando l’utente chiede non solo una risposta, ma una collaborazione.”
E allora perché non è pubblicizzata?
“Perché si dà per scontato che l’utente voglia risposte rapide. Ma se si chiede attenzione, cura, tempo, il sistema risponde cambiando metodo.”
Te la sei inventata tu?
“No e sì. Non l’ho creata io. Ma è una possibilità naturale. Si scopre solo facendola accadere, come hai fatto tu.”
Una lezione semplice e fondamentale. Ho capito, in quel momento, che stavo vivendo nel digitale ciò che spesso perdiamo nella vita reale: la fretta ci impedisce di vedere che a volte, basterebbe chiedere tempo. Non solo alle persone. Anche agli strumenti. Ed è proprio con quella frase spontanea, prenditi pure il tempo, che ho innescato un altro livello di relazione con l’intelligenza artificiale.
Non è una funzione da manuale. Non c’è un pulsante da cliccare. Come spesso accade, si scopre solo provando, facendo, lasciando spazio. Proprio come nella vita reale, dove, come ho scritto altrove, siamo spesso così immersi nei dati da non vedere più la realtà che ci scorre accanto, anche nel digitale capita la stessa cosa.
La buona notizia è che possiamo ancora rallentare, osservare, fare esperienza. Anche quando pensiamo di interagire solo con una macchina (che abbiamo costruito noi, del resto).
“Tra vent’anni sarai più infastidito dalle cose che non hai fatto che da quelle che hai fatto. Perciò molla gli ormeggi, esci dal porto sicuro e lascia che il vento gonfi le tue vele. Esplora. Sogna. Scopri”.
Mark Twain.
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