Le botte a Cugliate Fabiasco per strada, ma senza denuncia, “sono persone da lasciar stare”

Entra nel vivo il processo che vede diverse persone accusate per aver attinto a comportamenti mafiosi per intimidire. In aula i “non ricordo bene“ dei testimoni. Le difese degli imputati in prima persona fuori dall'aula: "Quale mafia? La mafia è una parola che mette paura"

carabinieri stresa

Il codice penale sul punto è piuttosto chiaro: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa e’ punito con la reclusione fino a quattro anni“. Si chiama violenza privata, e non è neppure uno dei reati più gravi. Ma se a questo comportamento si abbina il potere di persuasione della criminalità organizzata, del fatto che si minaccia qualcuno a fare o non fare qualcosa «altrimenti chiamo gli amici degli amici», allora il quadro si complica e si parla di reati esercitati con l’aggravante del metodo mafioso.

Un metodo che può applicarsi a diverse circostanze, per esempio ad impedire ad una famiglia, presa a pugni per un semplice diverbio stradale, con la madre che deve scendere dall’auto per difendere la figlia fatta oggetto di un colpo ad un occhio che le causò un danno permanente, a non denunciare il fatto. Un episodio grave, ma quasi minimizzato dai diretti interessati, testimoni ascoltati in aula martedì dal collegio, interrogati dal pubblico ministero della direzione distrettuale antimafia Giovanni Tarzia arrivato a Varese con la scorta per il dibattimento del processo «Nerone», la mafia del Nord della provincia, indagine partita appunto da una serie di incendi appiccati dolosamente in esercizi della Valmarchirolo. E da qui, dalla paura di vedersi l’officina bruciata, che la famiglia decide di non denunziare perché «sono persone da lasciar stare».

È il potere dei nomi delle famiglie di ‘ndrangheta che hanno messo le radici, e da lustri su lustri,  anche al Nord – in questo caso della cosca “Gianpà“, egemone a Lamezia Terme, in Calabria – , a fare paura a chi passa sulla strada di chi sta ad esse vicino. E pensare che nei paesi – due, 3mila abitanti – si conoscono tutti, cioè è impossibile non associare, per dire, un modello di auto al proprietario. O sapere che se ci si riferisce a «Pino», si sta parlando di quella specifica persona.

Eppure quanto avvenuto ai primi di giugno del 2017 nei pressi dell’allora cantiere per la rotatoria di Cugliate Fabiasco vede racconti discordanti, forse per la paura di parlare e dire tutto fino in fondo, e dunque c’è chi non riconosce, o non ricorda (il classico: «Sono passati così tanti anni»), c’è per esempio il marito che sostiene che quindici giorni di prognosi per un pugno sferrato alla moglie con perdita irrimediabile di un decimale di vista ad un occhio sia «roba di poco conto», che «poteva andare peggio», «molto peggio di com’è andata».

Ma cosa accadde quel giorno? Sulla carta un’aggressione, nata come spesso accade da una banalità: una famiglia composta da madre, figlia e genero si muove in auto appunto a Cugliate. Un veicolo sopraggiunge contromano con a bordo un giovane conducente. Le auto si sfiorano e l’autista del veicolo con a bordo tre persone dà del «coglione» a quell’altro per l’intemerata, a finestrino abbassato. Risultato: l’offeso, che sente, blocca il veicolo in modo da non lasciar spazio all’altra macchina, tira fuori dall’abitacolo il conducente prendendolo per il bavero, picchia la moglie di quest’ultimo raggiunta a gomitate in faccia, con solo l’intervento della madre armata di un cellulare utilizzato come arma e sferrato contro il labbro dell’assalitore che riesce ad attenuare la rabbia di quest’ultimo. Che forse avrebbe ripreso a picchiare poco dopo se non fosse stato per l’arrivo di un’auto scura, una berlina, con a bordo due persone che hanno bloccato il violento, allontanandolo.

Chi erano questi due benefattori della strada? Nessuno dei presenti li ha riconosciuti. Eppure, di quelle persone, tutti avevano paura. A tal punto che la denuncia contro l’aggressore non è stata sporta. Perché? Perché – secondo l’accusa – proprio alcuni degli imputati avrebbero sfruttato il loro potere di persuasione per imporre di non denunciare: avrebbero così evitato di «rovinare la vita» al ragazzo, figlio del proprietario di un ristorante della zona dove il gruppo si trovava, e dove i carabinieri del reparto operativo di Varese li stavano però ascoltando grazie ad intercettazioni ambientali.

Elementi importanti dell’indagine che diventeranno prove a carico degli imputati, e nelle prossime udienze, previste già da inizio aprile, altri testimoni completeranno il quadro dei numerosi episodi contestati che vanno dall’estorsione a alle lesioni attraverso aggressione, al traffico di droga, ancora a violenza privata. Gli imputati alla fine dell’udienza si intrattengono con la stampa: chi per ragioni di giustizia, uscito dal carcere afferma di aver cambiato vita e di aver messo la testa a posto. «E poi, quale mafia? La mafia è una parola che mette paura». Ne è convinto anche il pubblico ministero, a tal punto di aver ricordato ai testimoni, e più volte, di essere sotto giuramento.

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 25 Marzo 2025
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