Mafia del Nord: «Ti faccio a pezzi con la motosega», ma i testimoni in tribunale a Varese non parlano
Botte e intimidazioni nei cantieri e tra i pusher in Valcuvia: il silenzio che alimenta la paura. Il pubblico ministero chiede la trasmissione degli atti alla Procura

Il bisticcio col «moviere» che regola il traffico delle auto vicino al cantiere stradale; pugni in faccia, schiaffi, percosse e minacce pesanti: «Io ti taglio in due, ti faccio a pezzi con la motosega», fatti avvenuti a Cugliate Fabiasco il 7 giugno del 2017. Ma nessuna denuncia.
Ancora: le minacce per obbligare a firmare una dichiarazione che attesta il possesso di cocaina per scagionare i pusher: anche qui, nessuna querela, siamo sempre nel giugno 2017, questa volta a Cuveglio e dintorni.
Ci risiamo. Lesioni, minacce, violenza privata «ascoltata» dai carabinieri, ma non denunciata dalle vittime. Che in aula hanno ripetuto il copione del «non ricordo», «non lo so», addirittura negano di aver mai firmato nulla sebbene chiamati in caserma successivamente agli episodi, sentiti come persone informate sui fatti, con racconti messi a verbale dagli estensori, in divisa, e di fronte ai quali sono stati firmati. Il sospetto dei carabinieri fino ad oggi ascoltati nel corso del processo con l’aggravante del metodo mafioso – per fatti nell’Alto Varesotto che si sta celebrando a Varese col Sostituto della Dia di Milano Giovanni Tarzia – , a quanto pare risulta fondato. Cioè quel velo di reticenza che gli stessi militari respiravano, percepivano durante le indagini, si sta concretizzando. La penultima udienza ne è stata l’assaggio.
L’ultima, martedì, dinanzi al Collegio di Varese, l’ulteriore conferma. Tanto che lo stesso pubblico ministero ha chiesto per sei dei sette testimoni ascoltati (il settimo era un sottufficiale dei carabinieri di Luino) la trasmissione degli atti alla Procura, cioè la prospettazione rivolta alla magistratura requirente di Varese, di valutare se indagare o meno le persone ascoltate in aula sotto giuramento per il reato di falsa testimonianza. Una situazione che avviene, che può succedere per i più disparati motivi, ma che quando si parla di criminalità organizzata, anche di piccolo cabotaggio, si palesa sovente in maniera netta; del resto è proprio in questo modo che si concreta il «metodo mafioso», l’aggravante contestata dal primo comma dell’articolo 416-bis del codice penale: la paura di parlare per evitare di avere a che fare «con quelli», cioè persone, «delle quali è meglio non parlare perché fanno paura».
Una situazione che si consuma nelle valli dell’estremo Nord del Paese, al confine con la Svizzera, dove le aderenze con le famiglie di ‘ndrangheta sembra abbiano attecchito molto bene. Le difese del resto protestano per l’atteggiamento della Procura: «Mai vista una cosa del genere in 32 anni di professione», spiega uno dei difensori, Corrado Viazzo: «Se andiamo di questo passo il processo rischiamo di farlo ai testimoni, e non agli imputati».
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