Oltre l’Impero: il mondo dopo l’America
Le crisi americane arrivano anche da noi e questo cosa comporta? Nella nostra vita quotidiana tra lavoro, figli, tasse, che cosa significa tutto questo? Significa che non possiamo più aspettarci che il futuro venga deciso altrove

In queste settimane, un segnale curioso ma rivelatore è arrivato dal confine nord degli Stati Uniti. Molti canadesi, soprattutto i cosiddetti “snowbirds”, pensionati benestanti che tradizionalmente trascorrevano l’inverno al caldo della Florida, del Texas o dell’Arizona, stanno vendendo le loro case negli Stati Uniti. Non si sentono più a loro agio con un vicino percepito come instabile, aggressivo, imprevedibile.
Alcuni guardano al Messico o alla Repubblica Dominicana come alternative.
È un piccolo fatto. Ma come spesso accade nella storia, sono proprio i segnali sottili a raccontare la fine di un’egemonia. Quando perfino chi ti è più vicino comincia a prendere le distanze, non più per ideologia ma per disagio quotidiano, è il momento di guardare in faccia il cambiamento.
Nel mio ultimo articolo ho raccontato come Donald Trump parli alla pancia dell’America, risvegliando paure, orgoglio, risentimento. Ma per capire davvero cosa stia succedendo agli Stati Uniti, e quindi a tutti noi, bisogna allargare lo sguardo, oltre il leader, oltre il presente, oltre i confini. Una chiave potente per farlo è guardare alla storia. E usare una metafora antica, ma ancora viva: quella dell’Impero Romano.
Per secoli Roma fu il centro del mondo. Una potenza che univa, costruiva, dominava. Poi vennero le fratture: economiche, culturali, morali. E quando l’Impero d’Occidente cadde, non fu la fine, ma una trasformazione. Roma diventò Bisanzio: un nuovo equilibrio, un’altra forma di potere, più chiusa, più difensiva, più spirituale. Oggi, gli Stati Uniti sembrano vivere qualcosa di simile.
Sono stati la superpotenza del ventesimo secolo: vincitori di guerre, pionieri dello spazio, creatori della globalizzazione e del mito moderno del successo. Ma oggi quel mito scricchiola. Il sogno americano, che prometteva a tutti un futuro migliore, non regge più per molti. Fabbriche chiuse, classi medie impoverite, periferie abbandonate, giovani precari e indebitati: questa è la realtà che ha preparato il terreno al ritorno di Trump. Non è solo una questione di destra o sinistra, di democrazia o autoritarismo. È il segnale che il cuore dell’America sta cercando di reinventarsi, o rischia di esplodere.
Lo abbiamo visto ancora questa settimana, con una raffica di decisioni che hanno scosso i mercati globali: dazi su quasi tutti i Paesi partner, una moratoria selettiva di 90 giorni solo per alcuni “alleati temporanei”, la reazione immediata della Cina che ha iniziato a liberarsi del debito americano, e un crollo di Wall Street che ha lasciato il segno. A tutto questo si aggiungono accuse di insider trading ai danni di membri del nuovo governo: segno che la linea tra interesse pubblico e potere personale si sta facendo sempre più labile. L’impero traballa non in teoria, ma in tempo reale.
E pensare che, tanto Roma quanto l’America, non sono diventate grandi grazie alla forza bruta o alla chiusura, ma al contrario: grazie alla capacità di includere, attrarre, mescolare, assorbire energie diverse.
Roma si ingrandì perché sapeva integrare popoli, dare la cittadinanza, costruire ponti e strade, non solo conquiste. Gli Stati Uniti divennero la superpotenza del mondo non solo per l’esercito o il dollaro, ma perché rappresentavano un’idea universale di progresso, libertà, mobilità sociale.
Il cuore di ogni impero che funziona è un sogno che non esclude. Ed è proprio quella promessa inclusiva, oggi spezzata, che rende il momento attuale così drammatico. Come nella Roma tardo- imperiale, il centro non riesce più a parlare alle periferie. Le élite delle coste non capiscono la rabbia delle province. Le regole sembrano inefficaci. I muri, reali o simbolici, tornano. E nel vuoto, molti cercano un uomo forte che prometta ordine, grandezza, sicurezza. Ma la storia insegna che nessun impero è eterno. E che quando un centro vacilla, altri mondi si muovono.
La Cina offre un’alternativa basata sul controllo, sull’efficienza, sulla tecnologia. L’India cresce come laboratorio di creatività caotica e spiritualità digitale. L’Europa, se riuscisse a parlarsi, potrebbe essere la memoria critica del mondo. Ma ci sono anche attori finora marginali, ma sempre più centrali. L’Africa, con la sua energia giovane, i suoi slanci imprenditoriali, la sua fame di futuro. Il Sud America, con nuove alleanze, culture ibride, visioni ecologiche e sociali alternative.
In questo mondo senza centro, non c’è un solo successore di Roma. Forse non ci sarà una nuova Bisanzio, ma una rete di città-mondo, di potenze diffuse, di umanità in cerca di equilibrio. E allora, verrebbe da chiedersi, per noi qui, nella nostra vita quotidiana tra lavoro, figli, tasse, che cosa significa tutto questo? Significa che non possiamo più aspettarci che il futuro venga deciso altrove. Che non esistono più garanzie globali, che le crisi americane arrivano anche da noi — nei mercati, nei media, nei nostri telefoni. Significa che dobbiamo fare pace con un mondo più instabile, più frammentato, più complesso.
Ma anche più aperto. Perché se nessuno ha più il monopolio del potere e del modello giusto, allora ogni individuo, ogni comunità, ogni Paese ha una possibilità nuova di contare. Di proporre, inventare, cambiare. Anche da qui, dal Varesotto. Anche dall’uomo della strada. E se l’America, quella delle opportunità per tutti (lo so bene io che ho avuto una carriera iniziata nel Michigan), è in crisi, allora tocca a noi prenderci più responsabilità. Essere cittadini più consapevoli, consumatori più etici, lavoratori più curiosi, persone più attente. Non c’è più un impero che può decidere per tutti.
E forse è proprio il racconto, di chi siamo, di cosa vogliamo essere, il nuovo terreno di scontro e rinascita. Perché un impero non vive solo di eserciti o mercati: vive finché la sua storia convince chi la ascolta. E in fondo, forse, è meglio così. “Ciò che non giova all’alveare, non giova neppure all’ape”, Marco Aurelio.
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