Al Campo dei Fiori sparite 4 specie vegetali su 5: la ricerca dell’Università dell’Insubria sull’impoverimento della biodiversità
Lo studio del professor Bruno Cerabolini e del dottor Michele Dalle Fratte al Campo dei Fiori sull'assenza di specie vegetali che dovrebbero essere presenti. Un fenomeno chiamato “dark diversity”
Pensate di andare a funghi. Il momento è quello giusto, l’umidità del terreno è ottimale, la zona assolutamente favorevole. Ma di funghi… nemmeno l’ombra.
O considerate che, nel corso di una passeggiata nelle faggete del Campo dei Fiori, siete convinti di vedere una sanicola, i mughetti, la gramigna di Parnasso: è la stagione giusta ma quei fiori non ci sono.
Non è sfortuna: succede che quelle piante non ci sono più. Sparite.
Il motivo lo spiega bene un lavoro di ricerca approfondito dedicato alla “diversità oscura” condotto da quindici ricercatori italiani di 9 atenei: tra loro anche un gruppo dell’Università dell’Insubria, il professor Bruno Cerabolini e il dottor Michele Dalle Fratte.
La dark diversity al Campo dei Fiori
L’area che hanno osservato è una zona nel Parco del Campo dei Fiori, poi messa a confronto con aree omogenee di altre cime come la Martica, il monte Crocetta, il Sasso del Ferro. Hanno valutato boschi e brughiere arrivando alla conclusione che circa 4 specie vegetali su 5 non ci sono più. Un cambiamento accelerato dalla presenza dell’uomo e che evidenzia quella che si definisce “la sesta estinzione di massa”.
Osservate faggete e brughiere rupestri
«Il modello che abbiamo utilizzato è quello della co-occorrenza che si basa sul principio per il quale alcune piante “preferiscono” stare vicino ad altre – spiega il dottor Dalle Fratte – uno studio reso possibile da dati di un network internazionale (DarkDivNet). Mettendo insieme queste “matrici di co-occorrenza” desumiamo la “dark diversity”, ossia il numero di specie assenti in un sito ma che dovrebbero popolare quel tratto di bosco o brughiera, perché ecologicamente idonee e presenti nella regione circostante».
Sotto osservazione sono state le faggete e le brughiere rupestri: «Sappiamo che il Campo dei Fiori si trova in una situazione particolare, a causa degli eventi meteorologici estremi ma anche per il vasto incendio. È un’area che definirei “seminaturale” perché ha sempre visto l’intervento antropico. Abbiamo verificato, in base ai parametri della ricerca, che l’impronta umana ha un forte impatto negativo sulla completezza delle comunità vegetali, ad eccezione delle attività tradizionali di gestione antropica del territorio, come il pascolamento estensivo e lo sfalcio dei prati di monte».
L’impatto antropico si estende fino a 300 chilometri di distanza dalle aree direttamente colpite
La storia delle faggete del Campo dei Fiori e delle brughiere rupestri, quindi, presenta aspetti preoccupanti alla luce degli eventi estremi succedutesi negli ultimi anni, soprattutto quando questi sono combinati ad altri fattori causati dall’uomo, come l’incendio che ha devastato il Campo dei Fiori: «La mancanza di tante specie – chiarisce il ricercatore – porta a conseguenze precise: diminuiscono la resilienza ecosistemica e le funzionalità ecosistemiche, con effetti a cascata sulle altre reti trofiche (ad esempio gli insetti impollinatori), e di conseguenza diminuiscono i servizi che gli ecosistemi garantiscono all’umanità. L’impronta umana ha un effetto negativo sulla biodiversità fino a un raggio di 300 chilometri, ma questa influenza negativa è meno pronunciata quando almeno un terzo della regione circostante l’area è incontaminato o ben protetto».
La perdita di biodiversità indebolisce la resilienza ecosistemica. Ma cosa vuol dire?
«Significa che se noi abbiamo una grossa diversità di piante presenti, in caso di un evento estremo, ci sarà una specie che riuscirà a sostituirne un’altra. Nel momento in cui tale diversità diminuisce, se nessuno interviene, il processo di impoverimento prosegue e l’ecosistema perde la sua capacità di ritornare allo stato originale».
L’urbanizzazione e la frammentazione del territorio
L’intervento umano più impattante è la frammentazione del territorio: il consumo di suolo spezza il legame territoriale delle popolazioni di una stessa specie che, rinchiuse in spazi minimi, diminuiscono la capacità di riproduzione e dispersione, riducendosi fino a estinguersi. «Vengono meno i meccanismi di dispersione, cioè una specie non può più diffondersi in altre aree restringendo la sua presenza ad aree sempre più ristrette».
Eutrofizzazione, inquinamento atmosferico e da microplastiche
Anche l’inquinamento è tra le cause dell’impoverimento vegetale: quello atmosferico in primis, ma anche quello derivante dalle microplastiche, le quali, decomponendosi nel terreno, lo rendono più fertile, così come le deposizioni atmosferiche di azoto. Tutti questi processi favoriscono l’ingresso di specie più competitive come le piante aliene invasive.
Serve un’inversione di tendenza: alla base di ogni ecosistema ci sono le piante
Per invertire questa tendenza servirebbero interventi mirati di sostegno alla tutela della biodiversità, come aumentare il numero e le superfici delle aree rigorosamente protette: «La diversità oscura esiste ed è in aumento. Questo studio vuole essere uno spunto per gli enti gestori o gli amministratori, interessati a ripristinare gli habitat in quanto la diversità oscura fornisce uno strumento pratico per identificare le specie assenti ma idonee per interventi di recupero. Non dimentichiamoci che l’uomo è una parte di un ecosistema, e alla base di ogni ecosistema, ci sono le piante».
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