L’avvocato Galati: “La pandemia ha tolto il velo sulle condizioni delle carceri italiane”
Sono almeno 537 i detenuti contagiati e 728 gli agenti positivi al Covid. Il docente di diritto processuale della Liuc avverte: "È irrinunciabile il mutamento della culturadella sanzione penale, stop a pulsione securitaria"
L’avvocato del Foro di Busto Arsizio Concetto Daniele Galati, docente di diritto processuale penale nell’Università LIUC di Castellanza e componente della Commissione Iniziative Legislative dell’Unione Camere Penali Italiane accende un faro sulla situazione degli istituti penitenziari in Italia. Dall’inizio della seconda ondata la struttura di via per Cassano è rimasta nell’ombra e il legale bustocco ha voluto accendere un faro sulla situazione nazionale per la quale non sarebbe garantito il diritto costituzionale alla salute dei detenuti.
La situazione nelle carceri è oggi particolarmente critica in ragione della crescita esponenziale della diffusione del virus: il Consiglio d’Europa, l’11 novembre, ha pubblicato uno studio che colloca l’Italia fra i Paesi con il maggior numero di contagi fra i soggetti ristretti; i dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornati all’8 novembre, riferiscono di 537 reclusi e 728 operatori contagiati.
La seconda ondata pandemica si abbatte, invero, su un sistema in crisi ormai da tempo, connotato da criticità che determinano un’insostenibile sospensione delle più elementari esigenze umane: spazi angusti, strutture fatiscenti e ricolme oltre la capienza tollerabile, inevitabile promiscuità, degrado diffuso, inattività coatta per l’endemico difetto di risorse.
In base ai risultati dei rapporti Space I (statistiche annuali, relative alle detenzione nelle istituzioni penali), l’Italia si è negli ultimi anni costantemente collocata, con riferimento al problema del sovraffollamento carcerario, nelle ultime posizioni in relazione ai quarantasette Stati che aderiscono al Consiglio d’Europa, con una percentuale di detenuti non destinatari di una sentenza definitiva e di suicidi al di sopra della media europea.
Al sovraffollamento si aggiungono altre problematiche, come emerge dalla recente indagine di Associazione Antigone (v. XV e XVI Rapporto sulle condizioni di detenzioni, 2019 e 2020) e avente ad oggetto più della metà degli istituti penitenziari nazionali: il riscaldamento, nei mesi invernali, è risultato non funzionante nel 7% dei casi, mentre l’accesso all’acqua calda sanitaria, per il malfunzionamento delle caldaie, sarebbe “non garantito” nel 35% degli istituti, fra cui le più grandi carceri del Paese; la maggioranza degli istituti penitenziari non ha una doccia all’interno della cella e consente di usufruire delle docce in sezione “a turni”, in molti casi solo una volta a settimana e in locali comuni spesso ammuffiti e insalubri; in molti carceri il numero settimanale di ore di presenza dei medici per cento detenuti è minimo e inidoneo a garantire le richieste di assistenza; la presenza di psichiatri e psicologi non è adeguata a far fronte a un disagio psichiatrico diffuso, dato che oltre un quarto dei detenuti assume una terapia psichiatrica.
La quotidianità della vita detentiva è inoltre connotata da sedentarietà, immobilismo e ozio forzato: «negli istituti visitati solo un terzo delle persone detenute lavora (il 28,8% alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e solo il 4,2% alle dipendenze di altri soggetti), il 4,6% segue dei corsi di formazione professionale (nel 38,6% degli istituti non risultano attivati corsi di formazione professionale) e il 26,5% è coinvolto in un qualche corso scolastico».
Occorre a questo proposito ricordare che, nel 2013, con la sentenza Torreggiani e altri c. Italia, la Corte europea ha accertato la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Divieto di tortura, trattamenti o pene inumane e degradanti), constatando la sussistenza di «un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario».
Difetti strutturali a cui il legislatore non è mai stato in grado di porre rimedio e che hanno reso le carceri nazionali un contesto ideale per una diffusione massiva del contagio. Ciononostante, a fronte di una pandemia inedita per gravità ed estensione, potenzialmente in grado di produrre effetti devastanti sulla popolazione ristretta, nel corso della c.d. “prima ondata” si è optato – con il d.l. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. «cura Italia», convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27 – per soluzioni blande, temporanee e di limitata portata applicativa. A fronte di una iniziale e comunque insufficiente riduzione della popolazione carceraria, vi è stato, a partire da fine luglio, un nuovo aumento dei soggetti ristretti.
Il problema delle condizioni di detenzione e del rischio di una incontrollata diffusione del virus si ripresenta oggi con tratti ancor più drammatici e il Governo, ancora una volta, ha scelto di adottare iniziative che assumono le sembianze del palliativo o, meglio, del rattoppo temporaneo a una falla che richiederebbe interventi di ben più ampio respiro.
Con il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, c.d. decreto «Ristori», infatti, sono state adottate misure analoghe a quelle previste a marzo 2020, salvo qualche differenza che non consente certo di prevederne una maggiore portata: per i limiti applicativi delle disposizioni normative, per l’impossibilità materiale della magistratura di sorveglianza di operare al ritmo del contagio, per la mancanza di un numero sufficiente di dispositivi elettronici di controllo, per i problemi di organico, per l’assenza di spazi adeguati all’isolamento dei detenuti che giungono dall’esterno, per gli standard igienici degli istituti, per i difetti strutturali che rendono particolarmente difficili le condizioni dei detenuti più vulnerabili.
Assistiamo a una crisi che mostra, plasticamente, quanto abbia inciso sul carcere il sostanziale abbandono della complessiva riforma dell’ordinamento penitenziario, le cui linee essenziali erano già state definite a seguito dei lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale (2015-2016) ed erano confluite nella c.d. “riforma penitenziaria Orlando”.
Il legislatore, di contro, ha privilegiato iniziative securitarie di breve respiro, antitetiche rispetto ai principi costituzionali e sovranazionali in materia di funzione ed esecuzione della pena. Un problema culturale, prima che normativo, che ha fatto sì che ogni sforzo di innovazione rimanesse solo sulla carta, con il drammatico effetto di perpetuare la permanenza nell’illegalità della fase esecutiva della sanzione penale.
Il carcere è in tal modo divenuto “waste land”, una “terre gaste” dove il diritto alla salute cede innanzi a indefinite istanze di sicurezza della collettività, dove il passato criminale del detenuto è anche presente e futuro, dove non conta il percorso individuale seguito dopo la condanna, dove non vi è spazio per l’affettività, dove non vi è possibilità alcuna di riscatto, dove il concetto stesso di “speranza” perde ogni contenuto semantico.
Quelle descritte sono condizioni che costituiscono, evidentemente, una negazione della dignità umana, parte integrante di un patrimonio di civiltà che trova riscontro e conferma nella Costituzione e nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
L’importanza di tali principi appare oggi ancor più evidente e mette in luce l’impellente necessità di misure immediate ed efficaci per contrastare l’avanzata del contagio ed evitare che ciò si traduca in un insostenibile aggravamento delle condizioni di detenzione.
L’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha a tale proposito, con il comunicato del 9 novembre 2020, rivolto il condivisibile invito al Parlamento «ad emanare l’amnistia e l’indulto, parole oggi impronunziabili», ma che nel momento attuale, più che in ogni altra situazione, troverebbero giustificazione. Nel suddetto documento sono state anche individuate una serie di soluzioni, tutte praticabili, per far fronte immediatamente all’emergenza. Rimedi di urgenza allo stato attuale irrinunciabili, ma che soli non bastano.
La pandemia ha sollevato il velo sulle condizioni del sistema penitenziario nazionale, sulle sue risalenti fragilità e sugli effetti di scelte politico-legislative incapaci di valutazioni prospettiche, rendendo evidente la necessità di una riforma complessiva che sappia incidere in maniera duratura sull’esecuzione penale, dando concreta attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena.
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