“Ho lavorato per Gheddafi e Saddam”
Un incontro inatteso in un cantiere, la storia di un operaio giramondo: nato e cresciuto in Bulgaria, finito in Italia dopo la Libia e l'Iraq dei dittatori, sempre nel segno del lavoro per grandi progetti edilizi
L’uomo è a torso nudo sotto il sole, ma tiene l’elmetto da lavoro ben calcato in testa. Maneggia una pala. Lancia un grido da lontano quando qualcuno si avvicina al cantiere e e contesta a gran voce l’intrusione, in un curioso italiano difficile da comprendere. È avanti con gli anni, ma ancora vigoroso; due occhi azzurri e un viso di aspetto familiare, segnato da due baffi bianchi segnano i suoi tratti, ne fanno un personaggio quasi omerico, a dispetto dell’evidente pancetta. «Giornalista? Allora va bene, entra e fai foto. Dicevo prima, perchè sicurezza, qui c’è macchinari, sai, contro furti». Non si sa mai: giusto essere prudenti. Il cantiere è importante: quello di uno degli edifici ad uso pubblico più rilevanti che si costruiscono qui a Busto Arsizio. Dove fino a sei mesi fa c’era solo un vasto prato, c’è ora una spianata in parte segnata da lavori preparatori. «Vedi, tanti piccoli buchi, sondaggi nel terreno: poi si fanno le fondamenta. E sì, verrà su in tempo».
A dispetto della sospettosità iniziale, l’uomo è loquace e ospitale. Ha una lunga storia alle spalle che comincia a raccontare in modo smozzicato, Trifon, che compie settant’anni il 23 settembre. È nato in «Balgària», dice: Bulgaria, a Plovdiv, da una famiglia di origine contadina. Il suo italiano saltellante, ricco di parole che non si capiscono, è quello di uno che ha imparato la lingua tardivamente, tra una palata e l’altra, catturando le parole da una radio accesa, da un dialogo fra un ingegnere e un capomastro. Al lavoro subito dopo le scuole, ricorda di aver fatto il militare, quasi due anni, nel ’61-’62, tagliato corto «per la vicenda di Cuba» quando americani e russi furono a un passo dallo sterminio atomico. Ha sempre lavorato nel settore delle costruzioni, Trifon: e per una dozzina d’anni, dal ’74, l’ha fatto in Paesi arabi. Difatti l’arabo lo parla, come il greco, e lo dimostra orgoglioso con frasi incomprensibili. È stato in Libia, a Sirte e in Tripolitania, soprattutto, ma anche in Iraq. Inviato dal suo paese al servizio di Gheddafi e di Saddam rispettivamente: dittatori visti di buon occhio dai sovietici, allora, e di conseguenza dalla Bulgaria di Todor Zhivkov. Non sono gli unici posti che ha visto, c’è stata anche l’Austria, la Serbia, ma l’esperienza in terra araba è stata lunga.
Qualche lampo di memoria. Il clima: «Ottimo, davvero, nel Sahara. Cielo sereno, sempre. Caldo, molto, ma buono». Cioè secco. «A Baghdad invece…, no buono». Un inferno umido, a quaranta e passa gradi. Chiedere ai nostri reduci. Di italiani trent’anni fa ce n’erano già, civili impegnati con le imprese che lavoravano in quel Paese. Il ricordo non è sempre lusinghiero: in una cittadina tra Baghdad e il Kuwait gli italiani cercavano donne a pagamento, racconta Trifon. «Donne, donne, io pago. E, anche per una birra, c’era tra i locali chi vendeva mogli e figlie». Il lavoro: in Libia i bulgari aiutavano a costruire soprattutto cliniche, ospedali. Un paradosso crudele, considerando come si sono concluse le relazioni bulgaro-libiche negli anni Duemila: su una certa storia di infermiere bulgare arrestate e torturate perchè confessassero di aver infettato con l’Aids quattrocento piccoli libici. Una vicenda che Trifon ricorda bene: al riguardo dice «mafia», e accenna a oscuri retroscena internazionali.
In Iraq invece, dietro la facciata di edifici industriali ad uso civile, conferma, si costruivano «armi chimiche, e bombe». «Era il 1980, 1981, c’era Saddam» ricorda. Trifon ricorda qualcosa anche della centrale nucleare di Osirak a Baghdad, bombardata dagli israeliani prima che potesse essere messa in funzione. «Avrei potuto non essere qui a parlarne. Dopo, arrivò una grande ditta coreana a mettere una copertura enorme sopra. L’uranio? Non è mai arrivato, i francesi non l’hanno mandato».
Negli anni Ottanta Trifon rimpatriò. Non per molto. «Mai mi sarei aspettato di dover emigrare di nuovo, alla mia età. In Bulgaria si sta peggio adesso che sotto il comunismo. Quando è caduto il regime, non c’era cibo, era chiusa perfino la banca nazionale!» ripete. «Ho passato trentacinque anni fuori dal mio paese, ma chi avrebbe detto di doversene andare di nuovo. Ci sono sempre più problemi in patria, ci sono stato l’ultima volta in aprile». Da dodici anni Trifon lavora con la grossa ditta veneta che cura questo cantiere a Busto. Non gli va di stare con le mani in mano, perchè la vita costa, perchè la moglie è malata. Vive in un paese del Vicentino. Anche il figlio minore è in Italia. «Con gli italiani ho lavorato tanto» ricorda. «Però questo paese ha un problema: i giovani. Vai a scuola, poi non trovi lavoro. No buono» dice agitando un dito nodoso. Poi offre dell’acqua, perchè l’ospitalità è sacra, anche qui, dove è di guardia. Fino ad ottobre, quando finirà il suo turno.
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