“Un’ostinata ricerca: Luigi Vermi e Varese”

Fabio Pevarello ha fatto parte della Commissione per la stesura del libro e compilato parte delle schede sugli edifici progettati da Luigi Vermi: pubblichiamo il suo omaggio alla memoria dell’Architetto

Luigi Vermi, architetto varesino del Novecento

L’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Varese ha recentemente pubblicato un volume dedicato alla figura di un architetto varesino particolarmente significativo. Il titolo è: “Luigi Vermi architetto del novecento. Progetti di architettura e studi urbanistici” e verrà presentato con un incontro alla biblioteca civica di Varese giovedì 10 gennaio alle 18.

Fabio Pevarello ha fatto parte della Commissione per la stesura del libro e compilato parte delle schede sugli edifici progettati da Luigi Vermi: pubblichiamo il suo omaggio alla memoria dell’Architetto la cui ostinata ricerca del genius loci  della città di Varese caratterizzò l’intera sua carriera professionale.

UN’OSTINATA RICERCA: LUIGI VERMI E VARESE

Fui invitato a collaborare alla pubblicazione sulla figura dell’architetto Luigi Vermi qualche anno fa dall’allora Presidente dell’Ordine degli Architetti di Varese Laura Gianetti in virtù di un mio articolo del 1996 sull’architettura a Varese e Como per conto della Rivista Tecnica della Svizzera Italiana. Per raccogliere informazioni e documentazione relative a due opere significative dell’architetto, consultai alcune tavole del Diario di Luigi Vermi negli studi professionali dei colleghi Giorgio Vassalli e Giuseppe Leoni.

Con questa occasione di ricerca per la pubblicazione confidavo di poter visionare tutta la serie di tavole che ricordavo disegnate con una ricchezza di particolari e con un gusto artistico per il tratto grafico.

In questi anni di ricerca ho avuto modo di tornare numerose volte ad ammirare quelle tavole, che troverete nel libro nella sezione dedicata al sorprendente Diario.  Le tavole illustrano progetti rimasti sulla carta, opere realizzate, e vedute – forse vere e proprie visioni – del luogo in cui abitava e che più amava: Varese.

Quello che mi ha più colpito é scoprire, nel dipanarsi della ricerca, nel recuperare il materiale archivistico e nel confrontarmi con chiunque avesse conosciuto da vicino Luigi Vermi, come anche questa passione di immaginarsi Varese non fosse un esercizio puramente stilistico supportato da una notevole bravura nel padroneggiare lo strumento del disegno, quanto un vero e proprio incarico professionale per se stesso.  Nel momento in cui il committente gli dava la possibilità di pensare ad un progetto privato, il Vermi coglieva l’occasione per ridisegnare anche le parti pubbliche della città che ne costituivano il contesto.

Questo aspetto emerge in maniera ancora più evidente, come è naturale, nel momento in cui si occupa di una serie di progetti a committenza pubblica: la  consulenza con l’Azienda Autonoma di Soggiorno di Varese, nel quadro del più ampio incarico per la redazione degli Atlanti per la Regione Lombardia; la proposta del  ridisegno dell’area dell’Ippodromo delle Bettole, nell’ipotesi di uno spostamento di questo in zona lago di Varese; e infine la proposta di  ridisegno della zona del palazzetto dello sport di  Masnago e con l’insediamento del polo scolastico di via Manin nel quadro del concorso-appalto promosso dal Comune di Varese.

In maniera più intenzionale la stessa attenzione al contesto emerge quando, alla fine degli anni ’60 e inizio degli anni ’70 del secolo scorso, viene incaricato da privati di progettare in aree libere, cioè poco edificate all’epoca di realizzazione, come al Gaggianello, al Monbernasco e nella zona di Viale Borri denominata Long’aria (via Talizia, località San Carlo), Luigi Vermi progetta il singolo edificio come parte di una visione urbanistica più ampia.

In questa visione, Varese è città residenziale a corollario di Milano, polo attrattore, e delle città dell’alto-milanese a vocazione produttiva integrate in un sistema di collegamenti infrastrutturali. Varese deve quindi specializzarsi offrendo residenza a quanti vogliono abitare in un contesto unico, con un alto valore paesaggistico che unisce le viste privilegiate di molte parti della città alla diffusa presenza di aree a verde sia private che pubbliche.

Nel lavoro che occupa Luigi Vermi nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, quello del Diario, il ripensare dell’architetto alle sue opere, disegnandole nel contesto, diventa per noi occasione di riflessione su quello che poteva essere, e non è stato, per Varese.

In molte tavole ritroviamo l’immagine della Varese che doveva essere al momento del ricordo di Vermi: una Varese degli anni sessanta non ancora sviluppata in modo tentacolare e che ancora non copriva molte delle aree a sud dell’attuale viale Europa e di viale Borri.

Le proposte progettuali di Luigi Vermi sono rappresentate come puntuali in un paesaggio quasi rurale: episodi di architettura concentrata in parti di territorio che costituiscono nucleoli di un organismo. Nei disegni planimetrici questa potrebbe sembrare una ricerca di stile organicista fine a se stessa, ma in realtà trova la sua giustificazione nelle viste prospettiche: Varese è una terrazza con vista sulla catena alpina. La progettazione urbanistica di quartieri di espansione, che concentrino l’edificato in modo da lasciare a verde ampie aree e che concedano a tutti gli edifici la stessa vista, è obbiettivo imprescindibile per Vermi. Egli mirava così a evitare quello che oggi chiamiamo “sprawl” e che nel suo personalissimo linguaggio diventa “dilagamento edificatorio”.

Significativo di quanto ho descritto sopra è l’appunto che si legge nella Tavola 33 del Diario, che riporto integralmente:

Tra il bordo sud della Varese ottocentesca e la sua castellanza meridionale di Bizzozzero, corrono poco più di 3 km; vi si incontrano le località della Long’aria prima e della Maddalena poi; le conosco bene perché da ragazzo vi andavo a disegnare: infatti questo frammento di territorio varesino è costituito da un altopiano che si affaccia come un lungo balcone su uno dei più vasti e splendidi panorami del mondo. Negli anni ’30 era tutto a campagna disseminata di grandi cascinali e ville isolate; Bizzozero era castellanza autonoma, comportandosi quasi come paesino a sé stante, tutto serrato sotto al castello. Fino all’anno ’68, allorché eseguii il progetto di “casa Talizia” (realizzata sei anni più tardi), la zona non era ancora compromessa, benché il processo di proliferazione dell’area-urbanizzata fosse già iniziato: proprio nel presentimento di un imminente dilagamento edificatorio, e nell’attesa di iniziare i lavori della “Talizia”, ovvero redatto la presente ipotesi progettuale per un quartiere destinato ad utenza prevalentemente residenziale, ma con inserimento di artigianato e piccole-industrie e, naturalmente, di terziario; il quartiere, completamente autosufficiente e capace di circa 4.000 residenti, prendeva spunto tipologico dal progetto “Talizia” ed era risolvibile con una macro-struttura orizzontale; traffici veicolari e pedonali separati, infrastrutture complete, equilibrate e paritetiche per ogni abitante “panorama-verde-aria pura-sport” assicurati a tutti e soprattutto, approfondito tentativo di conciliare la massima privatezza di ogni singola residenza con la massima capacità dell’assieme ad esprimere valenze comunitarie. Ma la cosiddetta “cultura” vigilava: la cosa non era per nulla contemplabile negli schemi dell’urbanistica ufficiale; dunque l’attesa esplosione edificatoria di questi ultimi 10 anni nella zona, è avvenuta sotto l’egida e la guida della vigente prassi urbanistico-amministrativa; la conseguenza è che i 4.000 “diseredati urbanistici” abitano un quartiere selvaggio, con strade primordiali, infrastruttura sociale carente, organizzazione civica approssimativa, negozi scarsissimi, totale assenza di centri di ritrovo o culturali, e di valori urbani: ed il meraviglioso panorama è negato a quasi tutti. Il risultato è automatico ed era scontato: giacché un quartiere nuovo costruito senza un “disegno-direttore” preciso, senza un carattere, un impegno, una cultura autentica, è un quartiere senza un’anima; dunque il solito esempio di periferia degradata che siamo abituati a vedere sorgere in tutt’Italia da ormai un quarto di secolo; per esperienza ormai acquisita si sa che esso si traduce velocemente in un incontrovertibile disastro sociale, anche se sorge nel più bel luogo del mondo.

Pensando al risultato della politica urbanistica degli ultimi cinquant’anni il rimpianto per quanto sopra descritto è grande. Il laconico commento di Luigi Vermi nella Tavola 46 mi fa pensare all’architetto che alla soglia dei settant’anni gode della vista del Monte Rosa dalla sua casa in cima al colle di Bosto e disegna il suo Diario pensando ai “diseredati urbanistici” della Long’aria e della Maddalena e alle occasioni perse della sua amata Varese e del magnifico territorio che la circonda.

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Pubblicato il 09 Febbraio 2022
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