“Chiamava ‘finocchio’ nostro figlio piccolo: siamo scappati da quella casa“

Imputato di maltrattamenti in famiglia un 60enne amministratore pubblico di un paese del Varesotto. Determinante l’intervento di psicologi e magistrati per far partire le indagini

giudiziaria

Lui poteva avere rapporti prematrimoniali con le sue fidanzate, ma non la ragazza diventata sua moglie, accusata di essere di “facili costumi”, per scegliere un eufemismo e dunque allontanarsi dalle reali frasi contenute nelle carte processuali e riportate fedelmente dalla donna ascoltata durante il processo che la vede come parte offesa del reato di “maltrattamenti in famiglia”. Purtroppo, una delle tante storie legate a questi comportamenti odiosi che con preoccupante frequenza arrivano nelle aule di giustizia. Ma ad attirare l’attenzione del Collegio chiamato a giudicare questi comportamenti sono le parole che l’uomo, 60 anni, e che ricopre una carica pubblica elettiva in un piccolo centro del Varesotto, è accusato di aver rivolto al figlio minore durante il periodo in cui la famiglia (madre, padre e tre figli) era “unita“ sotto un unico tetto.

Parole come «checca, frocio, finocchio», insulti pesanti rivolti ad un bambino colpevole di un’esuberanza che è propria in alcuni casi dei ragazzini che attraversano l’età scolare, una qualità vista in maniera negativa dal padre che non si limitava a quelle espressioni ma che, secondo le accuse che gli vengono mosse dalla Procura e che lo vedono innocente fino a prova contraria, si spingevano fino al contatto fisico, a percosse, schiaffi, colpi con mattarello, cucchiaio in legno e cinghia dei pantaloni.

Una cornice cominciata nel 2018 e proseguita fino al 2021 quando la madre, anch’essa fatta oggetto di pesanti parole, denuncia. Lo fa dopo aggressioni fisiche (anche durante i rapporti sessuali della coppia) che l’hanno vista intrappolata in un rapporto che tendeva a sminuirla e a farla rimanere schiava di un ricatto economico (i soldi in casa li portava lui) «sottoponendola ad un clima di continue vessazioni morali e fisiche e ad un regime vessatorio di abusi tale da renderne penose le condizioni di vita così cagionando in lei un profondo stato di sofferenza fisica e psicologica anche tale da limitarne la libertà di azione e di partecipazione alla vita famigliare», scrivono i magistrati nel decreto che dispone il giudizio per l’uomo, di cui vengono volutamente omesse generalità e luoghi di riferimento per ovvie ragioni imposte da deontologia e buon senso in ordine alla presenza nella vicenda di un minore.

Ma il processo non è a porte chiuse, e quindi nel corso dell’udienza di giovedì sono stati chiamati a testimoniare oltre dieci testi a vario titolo, dalle amiche della donna ai “tecnici“ che si sono occupati della vicenda. E proprio psicologi e assistenti sociali, oltre alla solerzia dei magistrati, che questa vicenda ha potuto avere una svolta raccontata dalla stessa donna nel corso dell’esame in aula: spezzare il legame con l’uomo che le aveva reso la vita impossibile. Avvisaglie, nel rapporto di coppia, ve ne erano già diverse e addirittura a partire dal 2000, anno del matrimonio: «Ero incinta, e dopo qualche mese voleva lasciarmi perché ero stata con altri uomini prima del matrimonio, quando lui stesso mi ha conosciuta mentre era fidanzato con un’altra ragazza».

La coppia affronta un percorso di convivenza difficile. Già nel 2003 i primi episodi di violenza raccontati dalla donna in aula (sebbene non siano fatti contestati nel processo poiché vanno dal 2004 al 2021) dopo la seconda gravidanza: «Era ossessionato dal mio trascorso precedente il matrimonio, voleva le mie foto da giovane. Mi prendeva a calci durante i rapporti sessuali dicendomi che ero una … perché ero stata con altri uomini prima di sposarci».

Ma il contesto – economico e sociale – è molto particolare, delicatissimo. La donna cerca aiuto, si allontana di casa per una settimana (questo il suo racconto) poi torna. Cerca di ricucire, i due “ci riprovano” e decidono per un terzo figlio. Da lì è un crescendo, con una situazione che si trascina fino al 2021 quando le psicologhe a cui la donna si rivolge per alcuni disturbi di apprendimento del figlio mettono la signora di fronte al fatto compiuto: ad un appuntamento con le dottoresse si trova anche il pubblico ministero; con la denuncia si attiva l’azione penale, lo spostamento di madre e del giovane in struttura protetta, fino a che non si arriva al processo. Le prossime tappe in aula sono già stabilite.

La donna e il figlio si sono costituiti come parte civile, patrocinati da Riccardo Rolando Riccardi; l’imputato è difeso dall’avvocato Marco Bianchi.

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 12 Settembre 2024
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Commenti

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  1. Avatar
    Scritto da lenny54

    Almeno pubblicare il centro del Varesotto, gli elettori avrebbero il diritto di sapere cosa si cela dietro il personaggio.

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