“La violenza di genere nella coppia è un problema di lui”
In questa intervista lo psicoterapeuta Stefano Cirillo riflette sulla violenza contro le donne: tra insicurezze maschili, dinamiche relazionali e il ruolo cruciale dell'educazione sentimentale. Questa sera interverrà alle 18 e 30 in un incontro da remoto organizzato dal Comune di Varese (nell'articolo le indicazioni)
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“La famiglia come (forse) non l’avevi mai pensata” è la rassegna realizzata dal Comune di Varese in collaborazione con l’associazione “Essere esseri umani” in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Un programma denso di appuntamenti che vedrà giovedì 16 gennaio a partire dalle 18.30 l’intervento dello psicoterapeuta Stefano Cirillo dal titolo “La violenza di genere nella coppia è un problema di lui”.
Cirillo è codirettore della Scuola di Psicoterapia Mara Selvini Palazzoli, è pioniere nel campo della tutela dei minori. Ha svolto per anni attività clinica e di ricerca sulle psicosi e sulle anoressie mentali. L’intervento sarà da remoto.
Dottor Cirillo, spesso i giornalisti nell’affrontare il fenomeno del femminicidio parlano di cultura del patriarcato. Quali sono i fattori che portano un uomo a uccidere una donna?
«Ho visto comparire questo fenomeno quando ho iniziato la mia professione cioè 50 anni fa. All’epoca mi occupavo prevalentemente del tema della violenza e del maltrattamento all’infanzia. I bambini non arrivavano da noi perché assistevano alla violenza del papà sulla mamma, se non nei rari casi in cui i bambini si mettevano a difendere la mamma. C’era però un’evidenza che mi colpiva: la violenza di genere all’epoca era presente in Svezia come in Spagna. Quindi mi sono chiesto che cosa succedesse nel paese in cui c’era una grande evoluzione dei diritti delle donne, che potevano quindi mettere in crisi i maschi più fragili, e cosa accadesse nel paese dove c’era un nazifascismo residuo. La prima risposta alla sua domanda è: l’invidia, la fragilità, la sensazione che la donna sia più forte, più indipendente, più sicura di sé. Quindi gli uomini più insicuri cercano di reagire a questo divario ricorrente, non avendo altri strumenti, con la violenza. Il secondo aspetto ricorrente è che l’uomo attribuisce alla donna un comportamento provocatorio, scaricando la colpa sulla vittima. Spesso si commetteva un grave errore cioè si faceva la terapia di coppia per cercare di modificare la relazione, mentre il problema è evidentemente dell’uomo. Si può provare una volta a vedere la coppia e capire che cosa è in grado l’uomo di vedere del proprio comportamento e che cosa impedisce alla donna di separarsi. Non sempre è una difficoltà separata, grazie a Dio, ma la violenza è un problema dell’uomo».
È dunque l’uomo che bisogna curare?
«Ci si concentra sulla protezione della donna senza aiutarla a capire che cosa l’ha trattenuta dal separarsi. Spesso la ragione sta nel fatto che la donna si sente la salvatrice dell’uomo che la picchia, pronto subito dopo averla picchiata a mettersi in ginocchio e a giurare che non lo farà più, implorando di non essere lasciato perché solo lei lo può salvare. E allora se la donna ha qualche elemento di depressione, aspetti in cui non si sente realizzata ecco che la missione salvifica riceve un forte impulso che può essere anche gratificante. La donna teme per l’uomo che le fa violenza, e non per sé, ha paura del ricatto del suicidio».
La presenza di un figlio può essere una leva motivazionale per la decisione di separarsi in presenza di segnali di violenza?
«Se ci sono dei bambini, le donne denunciano più facilmente e se non fanno denuncia chi viene al corrente della vittimizzazione può chiedere di procedere d’ufficio perché per proteggere i bambini non c’è bisogno di denuncia. Se non ci sono bambini è molto più difficile che la donna accolga questi segnali. Nei casi che io ho e che mi sono stati portati in supervisione da trattare non ce n’era neanche uno di donna senza figli. Eppure la presenza dei segnali di cui lei parla anche quelle donne sono in grado di coglierla. Questa è la vera scommessa. Si può lavorare su questi segnali: la gelosia, il controllo sistematico del telefono, il tentativo di isolare la donna dalle amiche, dai genitori, dai familiari sono tutti segnali di una possessività malata. Quando io ho cominciato a entrare più direttamente nei centri di tutela della donna, ho potuto constatare che in molti casi i bambini si guardano bene dal difendere la mamma perché si identificano con l’aggressore e questi sono quelli più a rischio. Quelli che difendono la mamma, una volta grandi, diventeranno persone nevrotiche. Ma quelli che si sono identificati con il padre, diventeranno degli uomini violenti».
Che strumenti ha lo psicoterapeuta per affrontare queste situazioni?
«Un terapeuta sistemico come il sottoscritto è più in grado di lavorare su uomini che non si vogliono curare e su donne che vogliono rimanere con questi uomini. Noi siamo abituati a lavorare in assenza di motivazioni. Per farla venire fuori dalla madre possiamo partire dal rischio per il bambino: “Mi devo separare per il bene di mio figlio”. Nel padre: “ Mi devo curare perché sto danneggiando mio figlio”. Un uomo violento non si farà curare e tantomeno aiutare da sua moglie perché ritiene che la colpa della sua condizione sia proprio della consorte. Invece, se si riesce a far capire che si sta danneggiando il figlio, allora può funzionare nel far emergere prima la motivazione».
Secondo lei c’è una carenza di educazione sentimentale nei femminicidi tra adolescenti?
«Questo è un aspetto fondamentale. Se c’è una precoce esposizione alla pornografia, a una visione del sesso molto meccanica e di performance, in assenza di una sufficiente maturità affettiva e sentimentale si può generare un problema. In una persona più adulta, sessualità e affettività più o meno sono sviluppate allo stesso livello. Negli adolescenti dove c’è una parte sentimentale ancora bassissima e una parte sessuale prematuramente evoluta, prima la solitudine del ragazzo e poi la solitudine dell’uomo sul piano affettivo si scontra con una visione della sessualità avulsa dal piano relazionale».
Perché questo fenomeno sembra esplodere oggi. Che cosa è cambiato rispetto al passato?
«Un punto fermo ce l’ho ed è riconducibile alla mitologia greca: Medea uccide i propri figli per vendicarsi di Giasone. A me sembra che il cambiamento epocale sia il seguente: gli uomini di oggi ammazzano i bambini per vendicarsi della moglie che li ha lasciati. Se per motivi culturali la donna nel passato aveva pochi strumenti di potere, oggi è come se l’uomo si sentisse altrettanto impotente e pensasse a una vendetta. Anche quando ci si trova d fronte a situazioni aberranti, non credo che le cose vadano peggio rispetto al passato».
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