Il giorno in cui la musica morì
di Abramo Vane
Il pullman in quel gelido inverno trasportava una parte della Storia del Rock’nRoll. E non era all’altezza, il pullman, un rottame della guerra con il sistema di riscaldamento che non funzionava. Da settimane una ventina di musicisti e cantanti onoravano il Winter Dance Party Tour, dal Minnesota allWisconsin, e li attendeva la città di Fargo. Buddy Holly quella sera, dopo il concerto al Surf Ballroom di Clear Lake, aveva rimediato un piccolo aereo da turismo con tre posti disponibili. Ci teneva ai musicisti della sua band, e voleva risparmiare loro una sofferenza di trecento miglia, ma Waylon Jennings aveva già ceduto il suo posto a Big Bopper, rosso in viso e febbricitante. Ed ecco le prime frasi pronunciate non da poveri umani, come ritengono quelli che credono al Big bang e stupidaggini del genere, ma dal Destino in persona, che quella sera si presentò nel più classico dei suoi vestimenti, con mantella nera, larga, e sotto l’arma letale che falcidia poveri e ricchi, buoni e cattivi.
Buddy era davvero alterato:
– Waylon, mi lasci solo, che tu possa schiantare su quel maledetto pullman.
– E allora che tu possa fracassarti al suolo con quel trabiccolo volante.
E in quel momento Waylon Jennings non aveva pronunciato semplici parole, ma sfornato una frase che pesava Sixteen Tons, come la canzone di Johnny Cash, che negli anni avrebbe cantato con tutto quel peso sull’anima.
C’era preoccupazione fra gli artisti. Pensavano a quel viaggio di trasferimento e ognuno di loro avrebbe preferito l’aereo. – Non ho mai volato in vita mia, – disse il giovane Ritchie Valens a Tommy Allsup, il chitarrista di Buddy Holly – cedimi il posto, per favore.
– E perché? Poi Buddy se la prenderà con me, come ha fatto con Waylon. – Ti prego, esaudisci il mio desiderio.
– Senti, ragazzo, facciamo così: tiriamo a sorte.
Il dj del locale lanciò in alto la monetina.
E Ritchie non capì il guaio in cui s’era ficcato. Il Destino gli era sempre stato amico. A tredici anni suonava in un complessino della scuola e le ragazze impazzivano per lui. In pochi anni una carriera strepitosa, fino a quell’appuntamento, che in seguito, nel 1970, il cantautore Don McLean chiamò “Il giorno in cui la musica morì”;, con quei versi immortali e agghiaccianti di quando lui a febbraio di quel 1959 era un ragazzo che distribuiva i giornali e lesse in prima pagina la notizia, e si commosse per Maria Elena, la moglie di Buddy Holly, che attendeva un figlio ed era già una giovane vedova.
Tante coincidenze sull’incidente. Il pilota aveva vent’anni e un brevetto appena conquistato, la strumentazione non era all’altezza, nevicava fitto e minacciava di peggio, forse qualcuno aveva sconsigliato il volo. Dopo il decollo l’aereo, pare, volò verso terra credendo di salire. Altre combinazioni, e altre ipotesi. Autentici invece i sogni di tre ragazzi, tre nuove stelle a brillare, anche se il cielo era scuro e tempestoso. Ritchie Valens, Buddy Holly e Big Bopper, in volo, pensavano già al grande concerto a Fargo. Dopo la tempesta notturna, i raggi di sole al mattino scagliarono tutta la loro energia su quel giorno chiamato 3 febbraio. E poi sul mondo che doveva ancora venire.
Racconto di Abramo Vane, tratto da “Tributo al Rock ‘n Roll” Edizioni IL CAVEDIO
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