Openjobmetis: l’approccio “player friendly” non impedisca di lavorare sodo e più a lungo
L'attenzione alle necessità dei giocatori è sacrosanta ma non deve impedire un aumento di carichi di lavoro nei momenti duri. Non per punizione, ma per trovare una soluzione a una crisi pesante
Da quando Luis Scola è salito in sella alla Pallacanestro Varese, due parole – in inglese – hanno “governato” il modo di lavoro della squadra e della società. “Player friendly”. Ovvero: i giocatori devono essere messi nella miglior condizione possibile per rendere, per evidenziare i propri pregi, e per questo devono essere circondati da un ambiente (fatto di persone, cose e servizi) in grado di metterli perfettamente a proprio agio.
Una scelta che ha portato a decisioni drastiche: il sergente di ferro Attilio Caja è stato subito messo alla porta (quando ancora Scola era giocatore) e lo stesso è accaduto a Johan Roijakkers, quando le sue critiche verso un giocatore – Justin Reyes – hanno passato il segno del buongusto e dell’educazione.
Nell’approccio “Player Friendly” vengono fatte poi confluire altre scelte effettuate dalla società a partire dalle tempistiche e dalle modalità di lavoro settimanale. Non è un mistero che la squadra in questi anni (già con Brase e Bialaszewski) abbia un programma piuttosto leggero: tre ore al giorno, posizionate tra la tarda mattinata e il primo pomeriggio, suddivise in una porzione di lavoro di gruppo (circa un’ora) e una serie di step individuali che, a rotazione, contemplano esercizi di tiro, pesi e palestra, sedute fisioterapiche e via dicendo.
Ed è proprio qui l’equivoco che andrebbe sbrogliato. Se l’approccio che favorisce i giocatori è assolutamente condivisibile (i sergenti di ferro hanno fatto il loro tempo, e mettere gli atleti nel massimo comfort possibile è una mossa intelligente), il fatto di limitare i tempi e modi dell’allenamento continua a rappresentare una scelta poco comprensibile. In ogni azienda – perché di questo si tratta – nei momenti di emergenza scattano (o dovrebbero scattare) procedure differenti dall’ordinario.
La Openjobmetis nell’emergenza è dentro fino al collo (la zona retrocessione è a -4, con due squadre che vantano il vantaggio nello scontro diretto, Pistoia e Cremona) e quindi servirebbe un surplus di lavoro per far funzionare meglio un complesso dove, adesso, non funziona un tubo. Per questo ci aspetteremmo che la squadra ampliasse e di molto il tempo trascorso in palestra: non per punizione, non per cattiveria, ma perché è proprio il lavoro comune che consente ai gruppi di migliorare. E di farlo sia sotto il profilo tecnico, sia sotto quello atletico, sia sotto quello della coesione: passare più tempo insieme è obbligatorio anche per creare quello “spogliatoio” che in questo momento appare allo sbando.
Ed è bene sottolineare che l’etica lavorativa, l’applicazione quotidiana fino a che è necessario, non è un’ossessione “italiana” o europea (ovvero quei mondi cui Luis Scola e la società generalmente non guardano). L’insegnamento sull’importanza del lavoro duro viene anche dagli Stati Uniti e tanti sono gli esempi di giocatori che richiedono, per rendere, proprio un maggiore impegno. Senza scomodare mostri sacri come Kobe Bryant (da tutti descritto come il massimo esponente di questo modo di lavorare), basta pensare ai tanti stranieri passati da Varese (molti ex NBA, come Eric Maynor ad esempio) che per mentalità, abitudine o necessità di mantenersi tonici richiedevano porzioni di lavoro suppletivo al di là di quello previsto dalla società (e ci riferiamo ad anni in cui la doppia seduta quotidiana era la norma per diversi giorni della settimana).
Ecco, da chi troppo spesso si riempie la bocca del termine “lavoro” (dall’allenatore ai gm fino ai dirigenti) ci aspetteremmo almeno questa svolta. Una maggior presenza sul parquet per affinare la condizione fisica (e il preparatore è fuori discussione: Silvio Barnaba ha dimostrato negli anni di saper fare molto bene questo lavoro), per colmare le lacune di gioco, di organizzazione difensiva, di carenze strutturali, per migliorare i singoli in quelle situazioni di gioco in cui faticano (per molti: il tagliafuori…). Con questo approccio cambierebbero i risultati? Non lo sappiamo, ovviamente, perché il campo resta il giudice ultimo, ma di certo si farebbe un passo avanti nel tentativo di vincere altre partite. Dimostrando anche nei fatti, ai tifosi, quel che si dice a parole: «Dobbiamo lavorare per migliorare». È così difficile?
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