Alla faccia della meritocrazia
La riforma della pubblica amministrazione prevede tagli lineari e una riorganizzazione delle Camere di commercioa livello regionale
Ogni epoca ha le sue parole. Quella contemporanea, in Italia, è contrassegnata dall’uso quasi ossessivo dei termini riforme e meritocrazia.
In virtù della prima sono stati fatti tanti cambiamenti che non erano per nulla riforme, ma solo scelte ideologiche camuffate. Un esempio su tutti è quello che riguarda le scuole pubbliche. Dopo vent’anni di politiche strabiche abbiamo un sistema penalizzato e quasi paralizzato. Il risultato, fatte le solite dovute eccezioni, è un netto peggioramento di molti indicatori che riguardano la pubblica istruzione.
Quando poi andiamo a guardare dentro alla parola meritocrazia ci accorgiamo che se ne fa un gran parlare, ma poi si fa tutt’altro. Prendiamo ad esempio i comuni che hanno subito recepito le richieste del Governo per i parametri fiscali. I cittadini residenti in queste amministrazioni virtuose, e quindi degne di attenzione per i propri meriti, sono penalizzati perché devono pagare prima. Più paradosso di così. Non serve esser amanti del colore verde in politica per comprendere che c’è qualcosa che non va. Non si tratta nemmeno di federalismo, ma di semplice buon senso.
L’ultimo esempio viene dalla riforma della pubblica amministrazione che coinvolge anche le Camere di commercio. Nel disegno del Governo c’è una profonda riorganizzazione di questi enti funzionali. Per mettere mano alla questione e dar qualche spicciolo alle aziende si parte tranciando in modo netto e lineare il contributo obbligatorio dovuto dalle imprese. Un risparmio per gli imprenditori, ma operato senza guardare per nulla a meriti e demeriti di ogni singolo ente. Certo sarebbe stato più complesso intervenire con un provvedimento che valutasse caso per caso, ma i tagli lineari sono quanto di più iniquo possa esserci. Se lo faceva un Governo di centro destra era così, ma se lo fa uno a guida Pd è la stessa cosa. Non si tratta del colore delle casacche, ma delle logiche con cui si operano le scelte.
Regionalizzare le Camere di commercio, come prevederebbe la seconda fase della riforma, può avere un senso in molte aree del Paese, meno in una realtà come la Lombardia con oltre dieci milioni di abitanti e una concentrazione di aziende e di operazioni economiche come poche ce ne sono al mondo. Una riforma seria deve tener conto dei contesti in cui opera e non tirar linee rette come se stessimo affrontando un problema di geometria.
Di questi tempi, ogni realtà sociale, economica e politica ha una grave responsabilità che è quella di aver aspettato a formulare proprie proposte di riforma e di taglio della spesa, ma questo non significa che ora si debba procedere a randellate. In virtù di reali esigenze economiche, troppo spesso supportate anche da un bieco populismo, sarebbe un vero peccato sacrificare esperienze meritevoli. C’è poco spazio, ma questo dovrebbe esser il tempo delle proposte e della disponibilità al dialogo. Un atteggiamento che abbia ben chiari gli obiettivi e i tempi in modo da non restare impantanati in discussioni epocali.
Quando si cambiano gli assetti istituzionali e funzionali di organizzazioni complesse occorre muoversi con attenzione, ma anche con la consapevolezza che occorra far presto. Abbiamo fatto passare troppo tempo senza far nulla, quasi che la crisi fosse un evento passeggero. Nel frattempo è cambiato il mondo e noi non possiamo stare a guardare.
Si faccia in fretta, ma si ascolti non tanto la protesta, ma le proposte, evitando di far danni peggiori di quello dello star fermi. Il Governo deve decidere quali sono gli ambiti territoriali su cui punta per il riassesto istituzionale, altrimenti per lungo tempo non si capirà nulla di chi siano le responsabilità. Dalle nostre parti è impensabile che sia la sola regione a gestire i territori. Lo dicono i numeri e la storia del Paese, al di là del campanilismo di cui siamo tutti intrisi.
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