Lidia Macchi, 6 testimoni interrogati fino a tarda notte
Chi sono e che cosa sostengono. Nel parco di Masnago si cerca l'arma del delitto
Cosa potranno trovare nel parco di Masnago i militari con i metal detector, dopo 29 anni? Il coltellino che ha ucciso Lidia Macchi, sperano gli inquirenti. L’arma che Stefano Binda, secondo i sospetti, potrebbe aver tenuto celata in un sacchetto bianco, un giorno del 1987, quando si fece accompagnare dall’amica Patrizia Bianchi sotto il castello. Quel giorno il ragazzo scese dall’auto e gettò via il sacco. (nella foto sopra, la madre di Lidia, Paola Bettoni, in tribunale, assistita dall’avvocato Daniele Pizzi)
Si aggrappa a ipotesi investigative l’ultima svolta sull’inchiesta per la morte di Lidia Macchi, il “cold case” forse più appassionante (e tragico) d’Italia in questo momento. La Procura generale di Milano farà scandagliare per 10 giorni Parco Mantegazza, che resterà chiuso ai cittadini. Ieri non è stato trovato nulla, oggi si scava ancora. Con i metal detector.
Perchè lì? Il suggerimento è arrivato da una testimone, Patrizia Bianchi, la donna che ha indicato alla polizia la circostanza della lettera. Ha riconosciuto la scrittura di Stefano Binda, nella poesia “In morte di un’amica” che fu recapitata ai genitori di Lidia il giorno del funerale. L’ipotesi è che l’autore della lettera sia anche l’assassino, perchè lo scritto descrive la scenda dell’omicidio.
I 6 TESTIMONI
Ieri gli interrogatori in tribunale sono terminati dopo mezzanotte. E’ stata una giornata senza precedenti a Palazzo di giustizia. Il processo per il delitto Macchi, di fatto, è iniziato con le deposizioni di ieri. Le testimonianze raccolte con la formula dell’incidente probatorio saranno scolpite negli atti, e non sono più modificabili. I testimoni hanno tutti sostanzialmente confermato quanto avevano affermato in fase di indagine. Vediamo dunque chi sono e che cosa sostengono. In ordine di apparizione. Patrizia Bianchi era un’amica di gioventù di Stefano Binda. Era innamorata del giovane filosofo e ha raccontato che l’amico aveva problemi con l’eroina; dopo il delitto di Lidia Stefano gettò via quel sacchetto al parco di Masnago: c’era l’arma? Lo diranno i militari che stanno cercando sotto il castello in queste ore. In aula era presente anche Paola Bettoni, madre di Lidia.
(Gli avvocati di Stefano Binda, Sergio Martelli e Roberto Pasella. Il pg è Carmen Manfredda, il gip Anna Giorgetti)
Emanuele Flaccadori è un ex amico di Gioventù Studentesca, era presente alla vacanza a Pragelato che dovrebbe costituire l’alibi di Binda, ma aveva accesso agli elenchi dei partecipanti e non ricorda la presenza di Stefano Binda. Dunque per l’accusa potrebbe essere l’uomo che dimostra come Binda poteva essere a Cittiglio il 5 gennaio del 1987 e non alla settimana bianca di Cl.
Stefania Macchi, sorella di Lidia, interrogata in tarda mattinata aveva invece affermato che Binda e Lidia si conoscevano e la sua testimonianza serve all’accusa per smentire quanto affermato da Binda nel 1987: e cioè che Stefano non sentiva Lidia da tre anni.
Il primo testimone ascoltato nel pomeriggio è stato don Fabio Baroncini, all’epoca assistente spirituale di Cl a Varese e insegnante del liceo classico Cairoli. Baroncini ha spiegato che Binda era considerato un leader tra i ragazzi, per la sua intelligenza e cultura. L’accusa declina questa descrizione in senso negativo, e cioè che Binda possa avere ancora oggi una capacità di intimorire i testimoni.
Don Giuseppe Sotgiu invece è il sacerdote brebbiese amico di infanzia di Binda. Sulla sua testimonianza non è trapelato nulla ieri, anche perché resa in tarda serata. Sotgiu secondo l’accusa nel 1987 tentò di fornire un falso alibi a Binda ma in una seconda deposizione si corresse. All’epoca fu anche sottoposto alla prova del dna. Infine è stata ascoltata nel cuore della notte Paola Bonari, la donna che aveva avuto un incidente stradale e che fu l’ultima a vedere Lidia nell’ospedale di Cittiglio.
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