“Rivavén biott”. Quando gli ebrei si salvavano passando il Tresa

La strada che 73 anni fa cominciò ad essere battuta per sfuggire alle persecuzioni naziste raccontata da un famigliare di chi visse quei momenti

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Storia è testimonianza, memoria è racconto. Ci sono gli studiosi. Ma per alcuni la storia fa parte del ritratto di famiglia sbiadito dal tempo.
Anni che tolgono colore anche alla facciata e piegano le travi di una casa dove più di 70 anni fa cominciarono a trovare riparo, appena al di là del fiume, gli ebrei. Uomini, donne e bambini che per sfuggire alla morte, nei campi, cercavano la strada per la Svizzera.

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I PRATI DI SAN VALENTINO – L’erba scricchiola sotto le scarpe e non si capisce se è brina o neve. Ci sono rovi, legname appena tagliato e nel grande campo qualcosa fuma, forse è letame. Dettagli.
Perché a poca distanza l’occhio segue qualcosa che si muove. È la corrente verde intenso del Tresa che corre veloce; però c’è poca acqua, tanto che affiora qualcosa.
Lungo la cantonale di Monteggio, fra le dogane di Fornasette e Ponte Cremanaga, in territorio svizzero, sorge un casolare abbandonato col tetto semi distrutto e alberi disordinati tutto intorno.

Questa casa fu il rifugio di una notte per decine, forse centinaia di ebrei in fuga dall’Italia dopo l’occupazione nazista seguita all’Otto settembre.

È la casa dove passò i primi 11 anni della sua vita, dal 1945 al 1956 Aris Corbetta, il barbiere di Voldomino incontrato pochi mesi fa, e che in quell’occasione promise di raccontare questa storia.

Ma soprattutto il casolare di campagna fu la casa del nonno, Evaristo Castellari, originario di Castel San Pietro, nel Bolognese, e ultimo postiglione a cavallo della tratta Fornasette-Ponte Tresa: siamo quasi ai tempi della diligenza, l’ultima corsa patì nel 1915.
Nonno Evaristo faceva anche l’agricoltore, e il campo di fianco al Tresa era il suo, come altre proprietà nella zona, tra cui i prati di San Valentino e il casolare.
«Non smetteva mai di raccontarmi degli ebrei, dei tempi della guerra e di quello che a un certo punto cominciò a succedere da queste parti – racconta Aris, con grande commozione, di fronte alla casa dove nacque – . In questo tratto il fiume, in alcuni momenti dell’anno, è molto basso e i confini di stato non si toccano per pochi metri, la distanza del letto del fiume. È da qui che passavano».

I TEDESCHI – Con l’arrivo dei tedeschi in veste di padroni e occupanti del Paese, iniziarono anche i rastrellamenti di ebrei. Eclatante fu lo sgombero del ghetto di Roma, quando il 16 ottobre 1943 vennero deportati in più di mille: se ne salvarono 17.
A Milano i deportati furono 856 (50 i sopravvissuti, fonte: wikipedia ), solo per citare il caso di comunità in grandi città.
Poi c’era tutto il resto del Paese. Poche le speranze di rimanere in Italia (salvo casi particolari e altrettanto rischiosi, come attraversare le linee e congiungersi, ma molto più tardi, con gli alleati che risalivano lo Stivale. Ben lo ricorda Mario Pirani in Poteva andare peggio, Mondadori, 2010).
Da queste parti la salvezza c’era, e aveva un nome, Svizzera. Su questi confini ancora oggi si ricordano storie di giustizia sommaria, tradimenti e deportazioni a un passo dalla luce. Ma anche momenti di gioia e salvezza.

Certo ci volevano soldi per assicurarsi l’arrivo in Svizzera. E a volte non bastavano. A volte qualcuno finiva nelle mani sbagliate.

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“RIVAVÉN BIOTT” – «Rivavén biott. Nudi. Gli ebrei arrivavano senza più niente. Senza un soldo – racconta Aris – . E la prima cosa che trovavano dopo il bagno nel Tresa era la nostra casa. La mia famiglia ne fece dormire a decine per terra, sui tavoli, in cucina. E quando c’erano le patate li sfamavano con quelle. Le mie cugine mi raccontarono di una notte in cui arrivò qui il rabbino di Milano con la famiglia. Erano stremati, e prima dell’alba si sarebbero dovuti mettere in viaggio per Sessa, attraverso la montagna, prendendo un sentiero dietro la casa. A Sessa c’era un punto di raccolta, dove sarebbero stati in salvo perché internati lontano dall’Italia; rimanere nei paraggi era molto pericoloso: le guardie di confine ti rispedivano in mano ai tedeschi. Bene, in cucina c’era un tavolo che traballava. Al mattino seguente, il tavolo non ballava più: quel capofamiglia per riconoscenza aveva messo sotto la gamba più corta un marengo d’oro, l’ultimo che aveva».

IL VIAGGIO – Il punto era attraversare il Tresa. Ma non solo. Il rischio era ovviamente arrivare fin lì, fino a quel fiumiciattolo che vi si immette scendendo dalla montagna da parte italiana, a Cremenaga, dove c’è un piccolo ponte.
Passiamo la frontiera e ci si arriva. Siamo esattamente lungo la strada provinciale 61 poco dopo essere entrati in territorio italiano: fino agli anni ’50 qui correva la tramvia. Tra i rami si vede, dall’altra parte del fiume, la casa diroccata di nonno Evaristo.
Chissà in quanti avranno aspettato il momento buono per uscire allo scoperto e saltare nel fiume. Chissà quante persone, in questo punto, hanno trattenuto il fiato accucciati nel piccolo ponticello sotto la strada, una mano sulla bocca dei più piccoli, gli occhi che guardano attorno, il cuore che batte a mille.
Sembra di vederli: famiglie stanche dopo essere passate per i boschi di Biviglione appena sopra Voldomino. Magari nascosti fin lì in un mezzo di fortuna per incontrare i passatori che li portavano fino al punto stabilito.
Tutto intorno le pattuglie di camice nere e i reparti delle ss appositamente schierati.

PITIGRILLI. E IL VESCOVO – «Mi hanno raccontato che di qui passò anche lo scrittore Dino Segre, il Pitigrilli – racconta Corbetta (anche se le stesse fonti citano un passaggio più a nord, fra Dumenza e Astano).
E di qui passò anche il vescovo, in famiglia lo chiamiamo così.
Era un pilota americano che passò il confine gettandosi nel fiume assieme ad un commilitone, il quale annegò e venne ripescato più a valle. Lui invece si salvò. Negli anni 80’ arrivò qui un taxi che fece avanti e indietro a lungo, quasi con l’intento di cercare qualcosa. Ne scese un vescovo: era lui, che dopo la guerra prese i voti. Venne per ringraziarci, si ricordò di quel piatto di patate».

È giusto ripeterlo: sono memorie, e come tali debbono venir lette. Ma il fatto di legare un ricordo ancora vivo a luoghi frequentati ogni giorno da migliaia di persone – siamo in terra di confine e frontalieri – rappresenta un valore che ancor più forte dobbiamo assaporare e difendere: la libertà.

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 25 Gennaio 2017
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