Processo Cazzaniga, la moglie di una vittima: “Fece lui l’iniezione che lo portò alla morte”
La donna vide morire suo marito nel 2011 dopo l'iniezione fatta dal medico accusato di 11 omicidi: "A Como gli avevano dato due mesi di vita. A Saronno morì dopo una notte"
«Una settimana dopo la morte di mio marito tornai in Pronto Soccorso per rititare alcuni documenti da portare in Comune e trovai il dottor Cazzaniga che era in turno. Mi riconobbe e mi chiese se avevo già elaborato il lutto. Pensai che era una domanda assurda perchè non si elabora un lutto così importante in una settimana».
In questa frase di Maria Antonietta Sartori, moglie di Pier Francesco Leone Ferrazzi morto al Pronto Soccorso dell’ospedale di Saronno la mattina del 4 gennaio 2011, è racchiusa la totale assenza di pietà da parte del medico Leonardo Cazzaniga, imputato per aver causato la morte di 11 pazienti tra i quali anche il marito (malato di tumore al fegato, ndr) della signora che questa mattina ha testimoniato davanti alla Corte d’Assise.
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La donna è la prima parente di una vittima a sfilare al banco dei testi nel processo che, oltre al medico accusato di una lunga lista di omicidi, coinvolge anche medici e dirigenti del nosocomio saronnese, accusati di omessa denuncia e favoreggiamento per non aver fatto nulle di fronte a quello che stava avvenendo da anni all’interno dell’area emergenza.
La donna racconta con grande lucidità: «Mio marito aveva un tumore che gli fu diagnosticato nel maggio del 2008, in pochi hanni ha subito tre interventi ma ogni volta si era ripreso.Il tumore fu scoperto proprio in pronto soccorso a Saronno me negli anni successivi lui non volle mai essere portato in quell’ospedale, riteneva che le cure non fossero di buon livello».
Il racconto prosegue: «Mio marito non ha mai smesso di lavorare, stava a casa dal lavoro solo il giorno della cehemioterapia e quello successivo per riprendersi ma ha sempre lavorato e viaggiato». La donna racconta di un viaggio in Argentina, due in Scozia, uno in Romania e proprio a due giorni dalla fine del soggiorno rumeno inizia il peggioramento repentino: «Era andato con mio figlio ma dovettero anticipare il ritorno perchè lui aveva una febbre molto alta e le convulsioni – racconta – all’ospedale di Como ci dicssero che gli erano rimasti un paio di mesi di vita e dopo un mese si sentì nuovamente molto male e così chiammamo un’ambulanza che lo portò al Pronto Soccorso dell’ospedale di Saronno, proprio dove lui non sarebbe mai voluto andare».
Era la sera del 3 gennaio 2011 quando il Ferrazzi entrò al Pronto Soccorso. La moglie racconta che inizialmente era molto agitato ma che poi, grazie ad una flebo, si tranquillizzò fino al punto di stare per ore con lo sguardo fisso nel vuoto e senza muoversi: «Pensai che l’avevano sedato e mi dissero che l’intenzione era quella di stabilizzarlo – racconta – poi al mattino un medico venne a dirci che era questione di ore. Era il dottor Cazzaniga che mi disse che avrebbero somministrato un farmaco per accompagnarlo alla morte dolcemente, era un farmaco bianco e denso. L’inieizione la fece Cazzaniga. Non ci fu chiesto nulla sulla somministrazione del medicinale. Pensai facesse parte di un protocollo di somministrazioni». Poco dopo arrivò il cappellano dell’ospedale per l’estrema unzione.
Dopo di lei hanno testimoniato anche i figli presenti in quelle ore al Pronto Soccorso che hanno confermato che Cazzaniga non chiese nessun assenso ai familiari per l’infusione del farmaco che ha accompagnato alla morte il loro genitore.
Prima della famiglia di Pier Francesco Ferrazzi, inoltre, aveva testimoniato un’infermiera la cu iesperienza di lavoro con Cazzaniga è stata funestata da un trattamento a dir poco discutibile da parte del professionista: «Mi chiamava trans o bagascia, sempre e anche davanti ai colleghi o ai pazienti – ha detto con voce quasi rotta dall’emozione – io l’ho comunque sempre ritenuto un valido medico per la grande esperienza che aveva» – ha detto la donna.
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