Nell’era di twitter la banca tratta con il venditore di cozze
L'eterno conflitto tra comunicazione e giornalismo, regole di ingaggio e trasparenza. Anche una grande banca è dovuta scendere a patti con un blogger - venditore mitili palermitano
«Una banca è stata costretta a trattare con un venditore di Cozze di Palermo che faceva il blogger e influenzava l’andamento del titolo postando dal suo carrettino». Il mitile che dava fastidio legittimamente alla grande banca in questione non era ignoto e l’istituto ha dovuto chiedere una tregua e trattare. Il caso raccontato da Daniele Chieffi, comunicatore di un altro colosso bancario ed ex giornalista di "Repubblica", ha fatto sorridere i tanti presenti all’incontro di Glocal dedicato al tema “Giornalismo e comunicazione: una stretta mortale o una risorsa importante?”. Un argomento delicato da sempre e reso ancor più complicato dall’avvento della rete e dei social media. L’operazione di verità – almeno a parole – innescata da Chieffi ha trovato una sponda ideale in Carola Frediani (agenzia Effecinque): « Tutti hanno un obbiettivo da comunicare, non solo le aziende, anche le fonti dei giornalisti. La rete ha innescato un processo che condiziona anche quando non siamo connessi».
Il condizionamento è dettato dall’entrata in gioco di un terzo soggetto: il cittadino che non subisce più passivamente quello che gli si propone, ma reagisce con il commento, il giudizio, la rettifica della verità quando viene nascosta e lo fa senza la mediazione del giornalista o del comunicatore. Ovvero sopperiscono a una mancanza del sistema, per dirla alla Chieffi: «se i giornalisti facessero bene il loro lavoro, io non avrei da lavorare. E se il comunicatore fa bene il suo lavoro sa che deve comunicare cio’ che interessa ai portatori di interesse».
Le imprese a loro volta mettono sul piatto il peso economico, fattore che influenza sia il comunicatore che il giornalista. «È inutile nasconderlo – continua Chieffi -. Ma quando lavoravo a "Repubblica" c’erano aziende verso le quali dovevi avere un occhio di riguardo perché finanziavano il giornale».
C’è anche chi, come Giuseppe Sangiorgio (Hagam), non facendo il giornalista ma il comunicatore/formatore, ha provato ad affrontare il tema da un punto di vista diverso, anche se fino a ieri – per sua stessa ammissione pubblica – non voleva partecipare all’incontro. «Per anni – spiega Sangiorgio – ci hanno abituato a concepire i brand aziendali come l’unico valore da comunicare. Bisogna invece cominciare dalle storie delle persone che ci sono in azienda. L’obiettivo deve essere più ampio di quello in cui viene confinato, lo richiede la rete stessa».
Storie o brand il problema di fondo non cambia: che posto ha la trasparenza nel rapporto di fiducia con il lettore? Marino Pessina (Eo Ipso) ha tolto per un istante la giacca del moderatore per indossare quella del guastatore: «Basta con la trasparenza». È bastata questa dichiarazione per liberare le residue resistenze dei relatori. «I giornalisti – ha commentato subito Davide Morisi (Quattrogatti) – devono cambiare il proprio ruolo perché nella guerra tra giornalismo e comunicazione è la rete l’elemento che fa la differenza. C’è una metamorfosi in atto e facciamo finta di non vederla».
Il primo punto, secondo Frediani, è stabilire le regole dell’ingaggio tra comunicazione aziendale e giornalismo ma spesso non basta, come ha dimostrato il recente caso Ikea di Piacenza. Magari le regole erano chiare, il problema è che ci si è messa di mezzo la rete che ha appoggiato la protesta dei lavoratori e attaccato il sito dell’azienda.
Insomma, se non vuoi subire la rete devi metterti in gioco. Come? «L’etica – ha concluso Chieffi – non è la trasparenza. Ma ai tempi della rete e dei social media è l’obbligo di rispondere a chi mi ingaggia».
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