“L’ergastolo ostativo lo scontiamo noi, vittime della mafia”
Lo dice Tina Montinaro, moglie del capo scorta di Giovanni Falcone morto a Capaci. La procuratrice antimafia Alessandra Dolci racconta della ‘ndrangheta in Lombardia
«Dalla mafia, dalla ‘ndrangheta e da altre forme di criminalità organizzata che conosciamo, si esce sono in due modi. Con la morte. O collaborando con lo Stato».
Stato che però, se con una mano “prende” a Cosa nostra&C., con l’altra in un certo senso dà.
Se col lavoro di altissimo profilo inquirente rappresentato dalle parole del procuratore aggiunto antimafia presso la procura di Milano Alessandra Dolci vengono inflitti duri colpi alle organizzazioni criminali che qui al Nord hanno da decenni le loro basi operative, con l’altra mano, quella della Consulta, si rischia di demolire un sistema che di fatto offre premialità a chi si è macchiato di condanne da “ergastolo ostativo”, andando quindi riformare una norma dell’ordinamento penitenziario che attenuerebbe la misura.
È la stessa procuratrice Dolci a fare questo ragionamento che ha seguito, nella giornata di oggi, venerdì, la testimonianza di Tina Montinaro, moglie di Antonio Montinaro (con lui, nella foto sopra), il capo scorta del giudice Giovanni Falcone saltato in aria con un pezzo di autostrada vicino a Palermo, nella strage di Capaci, il 23 maggio 1992.
«Fa male sentire che un Brusca debba avere benefici e che tra poco uscirà dal carcere. Fanno male le decisioni di Strasburgo e quella più recente della Consulta», spiega di fronte ad una platea di centinaia di studenti provenienti da quattro scuole del Varesotto e ospiti della giornata della legalità organizzata dall’istituto Galileo Galilei di Laveno Mombello.
«Il carcere ostativo è una pena che stiamo espiando noi famigliari di vittime della mafia: a noi è rimasta memoria e dolore, e siamo noi che andiamo a parlare di memoria in giro per l’Italia al posto dello Stato: sembra che tutto si voglia mettere a tacere, ma nessuno deve permettersi di dimenticare quegli uomini. Noi non siamo portatori sani di mafia, e lo dicono i nostri morti: a quei tempi (tra gli anni 80 e 90) a Palermo c’è stata una vera e propria guerra con migliaia di morti, non dimentichiamolo».
«Ci sono momenti in cui non so se sono dalla parte giusta ma quando vi vedo capisco che voi siete la parte migliore dell’Italia, siete puliti e non date nessun appoggio a nessuno ma anzi pensate con la vostra testa», ha spiegato Tina Montinaro rivolgendosi ai ragazzi: «Io non mi stanco e porterò la mia voce dappertutto. Siate diversi da noi perché noi siamo stati indifferenti».
È stata molto importante la parte dell’incontro dedicata alla narrazione del fenomeno mafioso offerto da uno dei maggiori esperti italiani di lotta alla criminalità organizzata, appunto la procuratrice presso la procura di Milano Alessandra Dolci, coordinatice dell’ufficio della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo lombardo (un passaggio del suo intervento è nel video).
La sua testimonianza, come “tecnica” della materia è stata piuttosto convincente nello spiegare la forza delle organizzazioni mafiose, soprattutto della ndrangheta lombarda radicata in tutta la regione, dove per gli affiliati uccidere rappresenta una prova d’iniziazione, ma anche un mestiere o un espediente per entrare in un contesto che assicura rispetto e deferenza, potere e senso di impunità laddove l’organizzazione è forte.
Un incontro, quello organizzato dal padrone di casa il professor Leonardo Salvemini, esperto di diritto ambientale, che ha appassionato gli studenti ma anche la folta rappresentanza costituita da alti gradi provinciali delle forze dell’ordine (presente anche il comandante dell’Arma di Verbania) e da diversi magistrati varesini.
ERGASTOLO OSTATIVO
Per alcuni reati – in particolare omicidi legati all’appartenenza alla criminalità – organizzata il nostro ordinamento prevede una pena senza fine e senza la possibilità di accedere a qualsiasi misura alternativa al carcere e a ogni beneficio penitenziario. La materia è stata oggetto di scrutinio presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha concluso per la violazione dell’articolo 3 della CEDU.
Il 22 ottobre 2019 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale dell‘articolo 4 bis* comma 1 dell’ordinamento penitenziario, in particolare la parte in cui non si prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia ” anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia […]il pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata”. Di fatto la pericolosità sociale del detenuto non collaborativo non è più considerata assoluta per questo tipo di reati ma diviene materia superabile con la decisione del magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere e sui pareri della procura antimafia competente.* Articolo 4 bis – Ordinamento penitenziario (legge 354/75)
(Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti)1. Fermo quanto stabilito dall’articolo 13-ter del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82, l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della legge 26 luglio 1975, n. 354, fatta eccezione per la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo nonché per i delitti di cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale, 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all’articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei predetti delitti, ai quali sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dagli articoli 62, numero 6, anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, o 114 del codice penale, ovvero la disposizione dell’articolo 116, secondo comma, dello stesso codice, i benefici suddetti possono essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Quando si tratta di detenuti o internati per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale ovvero di detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma del codice penale, 291-ter del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, 416 realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I e dagli articoli 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies del codice penale e all’articolo 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80 comma 2, del predetto testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, i benefici suddetti possono essere concessi solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva.
2. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1 il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni. Al suddetto comitato provinciale può essere chiamato a partecipare il direttore dell’istituto penitenziario in cui il condannato è detenuto.
2bis. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1, terzo periodo, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni dal questore. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni.
3. Quando il comitato ritiene che sussistano particolari esigenze di sicurezza ovvero che i collegamenti potrebbero essere mantenuti con organizzazioni operanti in ambiti non locali o extranazionali, ne dà comunicazione al giudice e il termine di cui al comma 2 è prorogato di ulteriori trenta giorni al fine di acquisire elementi ed informazioni da parte dei competenti organi centrali.
3bis. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, non possono essere concessi ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tal caso si prescinde dalle procedure previste dai commi 2 e 3.
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