Addio all’architetto Vittorio Gregotti, “il professore”
Ha progettato interi quartieri, dall'Italia fino a Shanghai: il ricordo intenso di una allieva
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Oggi è mancato Vittorio Gregotti. Oggi non è una data qualsiasi: sono le idi di marzo, giorno in cui – come ci hanno insegnato a scuola – si commemora l’assassinio di Giulio Cesare. Lui, Vittorio Gregotti, uno dei più importanti architetti e teorici dell’architettura del dopoguerra non poteva andarsene un giorno qualunque.
Dalle pagine dei suoi libri, dai quotidiani e dalle riviste che ha diretto o con cui ha collaborato esprimeva il proprio parere professionale su quanto si stava costruendo nel mondo. Gregotti parlava con schiettezza e lucidità agli addetti ai lavori e alle persone comuni, additando esempi virtuosi e pessime pratiche, con pacatezza senza timore di attirarsi critiche, senza desiderio di innescare oziose polemiche.
I suoi progetti possono piacere o meno, in fondo il gusto è un fattore personale, ma sono sempre rispettosi del contesto in cui si inseriscono, della sua storia, delle sue tradizioni costruttive, delle persone che lo abitano o frequentano, dimostrandosi una coerente applicazione dei principi teorizzati nel celeberrimo “Il territorio dell’architettura” saggio pubblicato per la prima volta nel lontano 1966. Tra i progetti a grande scala territoriale realizzati ricordiamo l’Università della Calabria, il quartiere Z.E.N.di Palermo di cui era orgoglioso nonostante la realizzazione lacunosa abbia compromesso l’efficacia sociale dell’idea iniziale e la trasformazione dell’area Pirelli-Bicocca a Milano e poi stadi, teatri lirici, musei, centri di ricerca, edifici per uffici e residenziali.
Nello svolgimento dell’attività professionale Vittorio Gregotti ha saputo circondarsi di un manipolo di soci visionari e audaci come lui e insieme sono arrivati persino a costruire in Cina, alle porte di Shanghai, una città per 100mila abitanti dal sapore italiano non tanto nelle forme architettoniche quando nell’impianto urbanistico e nella filosofia di vita. In studio lui non era “l’architetto” ma “il Professore” non solo perché molti dei collaboratori erano stati suoi allievi allo IUAV di Venezia ma perché al suo fianco imparavi davvero come si progetta: nei decenni sono passati centinaia di giovani architetti, tra essi alcuni insospettabili esponenti di spicco delle nuove generazioni di progettisti italiani.
Ho lavorato in molti studi professionali, alcuni di fama internazionale, ma posso dire che solo in Gregotti Associati, grazie all’esempio quotidiano, ho davvero imparato un mestiere. Ho capito cosa siano l’onestà intellettuale e l’integrità professionale, come esprimere le mie opinioni e come condirle di fine sarcasmo, come lavorare in gruppo ottimizzando le risorse individuali e a gioire tutti insieme per un lavoro ben fatto. Per lui non si era solamente un numero: certamente dipendeva dalla frenesia momento ma prima o poi ti chiamava al suo tavolo da disegno, posto di fianco alla grande vetrata affacciata sul giardino interno, a mostrargli il lavoro che stavi sviluppando e ti correggeva con pazienza, come ai tempi dell’università, per farti progredire dagli errori commessi o per stimolarti a fare ancor meglio.
Di lui non dimenticherò mai gli occhi cerulei che ti frugano nella mente, esortandoti a esprimere le tue idee per poi illuminarsi se compiaciuto della risposta o, in caso contrario, fiammeggiare severi.
Il dibattito architettonico sarà molto più piatto senza il suo contributo.
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