“Nel reparto covid ho imparato a comunicare con gli sguardi”
Dal 20 di marzo lavora come infermiera nel reparto Covid della pneumologia. Un'esperienza intensa e difficile che le ha richiesto un grande sforzo emotivo
Maschera, camice, visiera. Una tuta idrorepellente che ti ingabbia. Ancora: cuffia in testa, soprascarpe e quei tre paia di guanti che limitano la manualità. Non è facile lavorare in un reparto “covid”. Ci si muove con lo scafandro, con un caldo spesso soffocante, la necessità di bere o di andare in bagno limitata per non dover spendere tempo a svestirsi e rivestirsi consumando i dispositivi di protezione.
Alessandra, infermiera da 6 anni prima nel reparto di medicina e ora in quello di neuropsichiatria infantile al Del Ponte, ha scelto di andare volontaria nei reparti dell’emergenza dell’ospedale di Varese: « Avevo alle spalle tre anni in medicina, una situazione familiare meno impegnativa rispetto ad altre colleghe. Sapevo che i turni erano pesanti e il personale in difficoltà. Ho pensato che fosse giusto fare la mia parte».
Così, Alessandra viene assegnata alla pneumologia, uno dei reparti più coinvolti nell’emergenza. « L’inizio è stato un po’ difficoltoso. La preoccupazione c’era, le notizie che circolavano poco confortanti. Il timore di non essere all’altezza del compito che andavo a svolgere. Sono infermiera, mi piace il mio lavoro, lo svolgo con passione. Ma sarebbe bastato tutto ciò?».
Arriva in pneumologia il 20 marzo, in piena emergenza, con il reparto al limite della capienza: « Ricordo ancora l’ansia per una situazione così nuova e imprevedibile. Noi imprigionati negli scafandri, i pazienti spaventati e sofferenti, i volti tirati e stanchi dei colleghi. Ho pensato di aver fatto un grande sbaglio. Ma è stato un attimo: dal primario a tutti i medici, al coordinatore degli infermieri agli operatori presenti, mi hanno accolto con il sorriso, tirato per la tanta stanchezza ma aperto e caloroso. Sono stati giorni impegnativi, dove competenze e cuore hanno lavorato insieme per affrontare una situazione inedita. Soprattutto all’inizio, quando la battaglia sembrava senza fine perché i pazienti non miglioravano, combattevi contro la tensione e la frustrazione. Quando finalmente siamo riusciti a dimettere il primo paziente e spostarlo dall’area covid a quella non covid è cambiato tutto. Una carica di energia nuova ci ha permesso di andare avanti perchè sapevamo che c’era una meta».
Mascherata da tutti i presidi di protezione, Alessandra ha imparato a comunicare con gli occhi: « Nel reparto “pulito” quello non covid, dove entravamo solo con la mascherina FFP2, i pazienti hanno potuto abbinare i nostri occhi ai volti e alle voci. Avevano imparato a distinguerci solo dai nostri occhi o dal tono di voce che arrivava comunque ovattato. E ci ringraziavano per i piccoli gesti quotidiani così preziosi nei giorni della loro malattia. Un signore si è ricordato di quando io avevo trovato il tempo per passargli un bicchiere d’acqua nonostante il grande lavoro che stavamo gestendo. Mi ha ringraziato perché mi ero accorta di lui e del suo bisogno, nonostante il trambusto».
Momenti difficili e nuove sfide si sono presentate come fare un prelievo con tre paia di guanti o gestire la frustrazione o la rabbia di chi non accetta la malattia: « Il lavoro è cambiato. Non solo attenzione e professionalità ma anche una tenuta emotiva nuova, capace di gestire l’ansia e il dolore che vedi attorno a te. E proprio queste novità hanno fatto da collante tra il personale che ha scoperto un modo nuovo di fare squadra, di sostenersi a vicenda, di andare oltre a nomi e qualifiche per collaborare tutti insieme. Uniti anche nella risata per stemperare le preoccupazioni, o nella ricerca di approcci più favorevoli».
Questo coronavirus, poi, ha costretto il personale, e soprattutto gli infermieri, ad affrontare in modo nuovo la morte: « Io ero abitata a gestire l’evento tragico. Ma non la solitudine di questa morte. Accanto al paziente, nei suoi ultimi minuti, c’eravamo solo noi, nessun parente, nessun volto amico. Solo noi bardati completamente e poco riconoscibili. La disperazione dei loro occhi è un dettaglio che mi rimarrà impresso, così come il bisogno di umanità che esprimevano quei volti piegati dalla malattia».
Alessandra sta lavorando ancora nel reparto di pneumologia. Turni di 12 ore intensi e impegnativi: « Questa azienda ci ha chiesto grossi sacrifici ma non ci ha mai lasciato soli. Ho sentito e sento tutt’ora il loro sostegno fatto di gesti concreti grandi e piccoli. Ho imparato tantissimo da questa esperienza e credo di uscirne cambiata. Sicuramente ho modificato il mio modo di avvicinarmi al letto del paziente perchè non esiste solo il linguaggio verbale. Possiamo comunicare in tanti modi, anche con i gesti, con il tono della voce, con l’espressione degli occhi. Modi diversi ma molto importanti».
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